Aperto e scardinato, il cubo rosso de La degenerazione di Parsifal, Natività (2005), di Francesco Gennari (Pesaro, 1973), perde la sua solidità originaria e permette alla farina contenuta al suo interno di crollare sotto la spinta della forza di gravità. Una sola opera per l’intera personale, ma sufficiente per chiamare in causa il binomio ordine-disordine, movimento-fissità, e soprattutto per evocare la forza creatrice della caduta. Il crollo sgretolante della farina, con il suo carattere organico e degradabile, già rientra nel campo semantico dell’evento nascita (come sottolinea il sottotitolo dell’opera), tanto da far sembrare una ridondanza la presenza di minuscole larve mescolate al composto, secondo la retorica della metamorfosi della farfalla. In realtà è proprio questa presenza fisica, costante nella poetica di Gennari, a trasformare l’opera in un’ideale prosecuzione di Mausoleo per un’insetto (2002), dove all’interno di un’ara di zucchero veniva custodito il corpicino senza vita di uno scarafaggio.
È il tema della morte il collante che tiene insieme questa mostra con l’altra personale presente in galleria: quella di Jan Vercruysse (Ostenda, 1948), celebrato esponente della cultura fiamminga contemporanea. Com’è tipico dell’opera di Vercruysse, anche questa volta i richiami sono alla visionaria fantasia di Lewis Carroll. Come nella serie Labyrinth and jardins de Plasir, del 1998, e in Camera oscura (2002), dove il processo di capovolgimento ottico della macchina fotografica veniva vissuto dalla stessa protagonista del celebre romanzo, con un divertente gioco di rimandi e inversioni. In questa occasione sono i semi delle carte da gioco a richiamare il celebre matematico-scrittore di Oxford. Sotto la veste di alfabeti segreti, i simboli delle carte appaiono composti ora come epigrafi su tombe in acciaio, ora come grottesche traduzioni delle poesie di Pessoa, ora come ex-voto.
Sono luoghi intimi e interiori, Places appunto, che comunicano un mondo che può trovarsi nel sottosuolo oppure oltre lo specchio, ma in cui nonostante l’irrazionalità capovolta la morte esiste. E quasi domina. Alla luce di questa personale rilettura del cattivo gusto ottocentesco risulta in particolare interessante Places I (2006), dove i semi delle carte, appesi alle pareti come ex voto sono filtrati attraverso il razionalismo dell’acciaio e dalla forma geometrica della composizione.
Il confronto è stimolante e la doppia personale permette di ottenere una chiave di lettura che lascia incrociare due diverse e autonome poetiche. Anche se in tutto questo contesto cimiteriale diventa impossibile non soffermarsi -con un sospiro di sollievo- sull’esposizione collettiva che occupa le altre sale della galleria, dove spicca un lavoro di Giuseppe Penone (Garessio, Cuneo 1947; vive a Parigi), che, partendo dai cedri di Versailles, messi all’asta dal comune di Parigi, si lancia in una raffinata meditazione sulla pelle, che assume i toni caldi del bronzo e del legno.
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