Il Castello di Rivalta, un paese nelle vicinanze di Torino, risale all’XI secolo. Da oggi, per volontà delle istituzioni Pubbliche, è sede di mostre d’arte contemporanea, in un proficuo connubio fra architettura, storia e arte, e con l’apporto dell’esperienza del gallerista Alberto Weber, che ha assunto la direzione degli eventi. Per il futuro è previsto un progressivo, costante ampliamento del dialogo con il pubblico, attraverso l’organizzazione di manifestazioni artistiche e culturali, non esclusivamente mostre, ma anche tavole rotonde, presentazione di libri, così da creare un centro con un largo raggio d’azione. Nel parco il visitatore è accolto da una scultura che
Carlo Maria Maggia ha realizzato per il sito, un
Frattale visivo costituito da specchi disposti secondo la latitudine e la longitudine del luogo.
Le mostre in corso sono tre. Due di esse propongono una riflessione tematica, l’una sulla
Via Crucis, l’altra sugli
Ex voto. Le quattordici stazioni della Via Crucis sono interpretate da artisti appartenenti a diversi ambiti culturali, attenti a focalizzare il tema della
pietas e del dolore, metafora dell’inquietudine esistenziale che caratterizza la dimensione contemporanea.
La figura è sublimata poeticamente da
Giorgio Rubbio, è appena definita nei contorni dal segno di
Bruno Lucca, evoca una inquietante meta-realtà in
Marcovinicio.
Pilar Cossio evidenzia i dettagli,
Daniele Guolo palesa il venir meno delle certezze,
Sylvie Romieu evoca l’illuminazione divina,
Pietro Weber il peso dell’esistenza,
Elisa Nicolaci il senso della perdita,
Marco Pellizzola il dolore dell’anima,
Giorgio Ramella la tragedia del compimento. Il bianco delle figure di
Federico Piccari esalta l’ascesi,
Francesco Nonino pone in primo piano la compassione della Veronica, la mano protesa nell’immagine fotografica di
Enzo Obiso assume il valore dell’ineffabile.
La seconda mostra è una proposta di Ex voto che, da sempre, testimoniano un ringraziamento, sono la memoria di un nuovo tassello nella costruzione esistenziale. La rassegna presenta 56 proposte, il cui denominatore comune è costituito dai testi poetici di Dario Capello, uno per ogni lavoro. Tra gli altri, segnaliamo il cuore di
Dario Gribaudo, la figura assorta di
Kevin Kadar, la simbologia linguistica di
Bartolomeo Migliore, la pagina di calendario di
Lucia Pescador, le compresse che
Giovanni Rizzoli ha trasformato in fiori.
Chiude il percorso l’antologica di
Bruno Martinazzi (Torino, 1923), che ripercorre la sua intera ricerca a partire dagli anni ’60.
Impegnato nello studio e nel sociale, si accosta al mondo dell’arte intorno ai trent’anni e, come afferma egli stesso, “
provai subito gioia, scoprii l’intelligenza delle mani. Le mani sono i terminali dell’intelligenza. Io ho bisogno delle mani per pensare”. La scultura gli consente di cercare e trovare l’equilibrio e l’armonia che appartengono alla musica e alla roccia, sue grandi passioni: attraverso il gesto di sottrarre, ridurre, eliminare, lo scultore respira la libertà e si scopre simile al titano.
Martinazzi ritiene che sia fondamentale interrogarsi per cercare delle risposte, “
scavare nell’anima e guardare il corpo con gli occhi dell’anima”. Ed è proprio il filo ideale dell’interiorità che accompagna lo spettatore dal ciclo di sculture di fine anni ’60,
Cariche, realizzate in alluminio, piene di tensione, che assumono la consistenza di “gonfiabili”, alle figure in bronzo, tra le quali segnaliamo il ciclo
Studi sulla paura, alle teste in marmo degli anni ’80, la cui incompiutezza si ammanta di ineffabililità, fino agli
Occhi, che comunicano un senso di smarrimento e mistero, acuito dagli spazi espositivi, che restituiscono la storia di millenni nella dimensione del silenzio.