Una tematica importante e complessa: l’utilizzo del linguaggio fotografico nella pittura. È questo il nodo intorno al quale si muove la mostra
The Painting of Modern Life / Dipingere la vita moderna, che affronta il problema esaminando il divenire e le profonde trasformazioni del linguaggio visivo negli ultimi 45 anni, in ambito europeo, americano e asiatico. Il confronto avviene dunque su diversi fronti culturali, oltre che su una multiformità di stili e metodi.
In quest’arco temporale, la pittura ha palesato una costante riadeguazione delle sue modalità espressive, mostrando molteplici facce: citazioni, realismi, pittura di memorie, influenze mediali, recupero della dimensione onirica, nel segno della ricerca di una “qualità” intrinseca. La fotografia, dal canto suo, una delle arti più recenti e forse la più prolifica a partire dagli anni ’80, si è dilatata sempre più verso incursioni extraterritoriali. Risulta dunque di grande interesse la verifica delle possibilità di intersezioni di codici all’apparenza molto diversi, che la mostra si propone di fare. La compenetrazione dei linguaggi esalta le peculiarità di ognuno di essi e li potenzia dal punto di vista espressivo e percettivo.
“
All’inizio degli anni ’60”, afferma il curatore della mostra, Ralph Rugoff, “
un numero ristretto di artisti segnò una svolta epocale nella storia della pittura. Indipendentemente gli uni dagli altri, Gerhard Richter a Colonia, Andy Warhol e Richard Artschwager a New York crearono quadri basati su immagini fotografiche”. Questi artisti sono le figure fondamentali intorno alle quali si muove la mostra. Per
Richter, della fotografria -“
un’immagine della mia e della vostra realtà”- risulta essenziale la dimensione dell’effimero che lascia nel dipinto tracce di evanescenza figurale, come si vede in
Renate und Marianne (1964).
Artschwager insegue nell’immagine il dettaglio, la quotidianità di luoghi usuali, quali la
Fabbrica (1969) o il
Dormitorio (1968), dei quali riproduce l’anonimità.
Warhol “
sceglie con cura l’immagine”, procede attraverso eliminazioni di particolari, ripete i media senza modificarli, attingendo anche a situazioni che hanno una presa forte nell’inconscio collettivo, come
Big electric Chair (1967).
Accanto a questi tre anticipatori di una nuova ibridazione linguistica, la mostra presenta una vasta selezione di opere nelle quali l’utilizzo del medium fotografico ha un ampio ventaglio espressivo. Alcuni esempi:
David Hockney, che “
fa fotografie come un disegnatore”, capace di riportare fedelmente un certo modo di percepire la realtà;
Malcolm Morley, che suddivide l’immagine intera in parti, eliminando i primi piani e lo sfondo;
Elizabeth Peyton, che rivede e corregge l’immagine fotografica nella pittura attraverso la mano;
Franz Gertsch, che enfatizza i particolari fino a liberarsi completamente dell’emotività; o, ancora,
Liu Xiadong, per il quale la fotografia è uno strumento atto a evidenziare gli effetti del capitalismo sulla società cinese.
Insomma, quello della Manica Lunga è un percorso che propone allo spettatore un’articolata selezione di opere la cui efficacia è duplice. In quanto, accanto alla tematica forte della commistione linguistica, si evidenzia l’effetto percettivo, spesso esaltato dal formato dei lavori, quasi sempre molto grandi.
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e per l'ennesima volta ancora nulla di nuovo dal Castello
Il vero problema non sta né nella pittura, Nè nella scelta degli artisti o nei curatori. Qui il problema è che in Italia ormai non ci si sogna più di fare una mostra degna di questo nome. E questa, come tutte le mostre che abbiano qualche velleità scientifica o di indagine contemporanea internazionale, tanto per cambiare altro non è che un evento pacchetto importato dall'UK, dove era stata presentata all'Hayward Gallery. E che il museo più di ricerca che abbiano in Italia, per scovare qualche spunto di interesse, debba andare ad affittare le mostrine inglesi è quanto meno demoralizzante.
oh finalmente pittura al Castello!
peccato che invece di fare un resoconto sui fermenti della nuova pittura in giro per il mondo si scelga un tema assai abusato e consumato
tra l'altro la selezione è sui consueti blue chips (meritatamente o meno) stranoti
forse con una selezione più allargata ad almeno qualcuno dei tanti pittori bravissimi che lavorano un pò in ombra nel mondo si correrebbe il rischio di far sfigurare una ciofeca come la Peyton (ad es.)
un museo dovrebbe porsi obbiettivi di ricerca e dovrebbe costituire una fonte di informazione sul non conosciuto e non essere una cinghia di trasmissione di una "Storia" che sarebbe ora di riscrivere con maggiore originalità
d'altra parte chi se ne frega di Rivoli...e chi le vede le mostre che fan lì? giusto gli amichetti loro...sembra che facciano a gara con il MACRO a chi riesce ad avere meno visitatori...