“Sapeva d’avere un viso troppo mite […], frutto –pensava– d’uno strano mescolarsi di vino pasquale, di farina d’avorio e di petali rosati; e detestava quella sua imbarazzante titubanza che si riaffacciava ad ogni incontro importante”. Così Fabrizio D’Amico racconta Marc Chagall (Lyozno, Vitebsk, 1887 – Saint-Paul-de-Vence, 1985) in un passo tratto dal catalogo della ricca esposizione torinese che sembra mirare a raggiungere, se non a superare, i quasi 160.000 visitatori accorsi per la precedente Africa. Capolavori da un continente.
Mediante la presentazione di circa 140 opere, l’intento è quello di fornire traccia di tutto il percorso artistico dell’autore, e non soltanto degli anni russi e del primo periodo francese, a lungo considerati da buona parte della critica gli unici davvero determinanti. A questo fine ne è ampiamente documentata anche la produzione tarda, caratterizzata in pittura da tele più materiche, contraddistinte da tonalità accese e densi strati di colore, ma anche da superfici trasparenti e singolarmente luminose, retaggio della realizzazione di pregevoli vetrate. Sono raccolti, inoltre, alcuni collages quasi del tutto sconosciuti, ed ancora ceramiche decorate, sculture in bronzo e marmo, ampi disegni a china.
Ciò che l’allestimento mette in luce, in primis, è la continuità del lavoro di Chagall, la coerenza che ne permea la lunghissima carriera, dagli anni Dieci fino alla seconda metà degli Ottanta. In un’epoca in cui impera l’impersonalità dell’astrattismo, per contro egli si concentra sulla sua esperienza personale, sulla sua soggettività. L’autoritratto è il suo mezzo espressivo prediletto, del resto, come già rivelano i disegni giovanili Divento pazzo e Non ho niente da fare (entrambi del 1907), preannuncianti la geniale liberazione di oggetti e corpi dai vincoli gravitazionali.
Autonomo dal punto di vista sia ideologico che formale, l’artista elabora una variegata narrazione di tipo allegorico, facendo un uso dell’elemento cromatico –prendendo a prestito le parole di Alan Crump– psicologico e metafisico. In lui, tuttavia, rimarrà sempre vivo l’incalzante antagonismo fra l’esigenza di rappresentare il proprio ambiente di provenienza, ovvero quello russo ed ebraico, e la necessità di dipingere in modo innovativo.
Marc Chagall riuscirà sino alla fine a rimanere fedele a sé stesso, si è detto, nonostante durante gli esordi senta il bisogno di metabolizzare e servirsi di quanto attuato dai suoi contemporanei. Tali contaminazioni appaiono piuttosto evidenti in lavori quali Musicisti di strada (1907), in cui l’aspetto delle figure e i toni cupi rievocano le atmosfere riprodotte da Munch, Nudo rosso (1909), dai colori vibranti ed aggressivi tipici dei fauves, Fragole (1916), palesemente matissiano, Nudo col pettine (1911) e L’apparizione (1917-1918), influenzati dalle sperimentazioni cubiste.
Oltre a svariati pezzi meno conosciuti e raramente esposti, sono presenti opere celebri quali Sogno di una notte d’estate (1939), di ispirazione shakespeariana, Il pendolo dall’ala blu (1949), fitta di immagini simboliche –dall’ebreo errante alla coppia di amanti, dal mazzo di fiori al gallo–, ed il trittico formato da Resistenza, Resurrezione e Liberazione (1937-1948). Un capolavoro di grande importanza storica, quest’ultimo, nel quale il Cristo diviene emblema universale della sofferenza umana. Chiude la mostra un breve percorso fotografico illustrante alcuni momenti della vita professionale e personale del maestro.
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