“Vetrine alla Calcografia” è un progetto decennale realizzato in collaborazione fra l’Archivio sabaudo e l’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma. La rassegna è più vasta e complessa nella Capitale, ma la partnership con lo spazio piemontese permette di incontrare lavori di grafica che raramente sono esposti al di fuori di circuiti piuttosto ristretti. In questo caso è protagonista l’opera su carta, ma non solo, dell’italo-americano Salvatore Scarpitta (New York, 1919).
In realtà Scarpitta è più italiano che statunitense, poiché figlio di immigrati (il padre era partito dal Sud per cercare l’America, la madre era russo-polacca) che già a diciassette anni sente l’atavica mancanza della penisola e visita Roma, inaugurando un pendolarismo che tuttora prosegue. In mostra circa settanta opere su carta, realizzate prevalentemente a china e tempera, secondo una scansione cronologica che a tratti diventa tematica, evidenziando la ricorsività di alcuni soggetti particolarmente cari all’artista.
In primo luogo colpisce la virulenza con la quale il colore aggredisce il supporto, all’apparenza debole ma a ben vedere assai resistente al pigmento. Così la carta s’increspa, diviene pericolosamente ondulata, pare sfrecciare come in Motocicletta (1950). L’infatuazione futurista, di cui s’è tanto scritto, ha certamente più che un fondo di verità, specie negli anni ‘50. Ma si declina non sugli aerei di un Giacomo Balla, bensì su automobili rapidissime, alla Marinetti. E poi non vanno dimenticate le motociclette, forse ancora troppo goffe all’epoca del futurismo, con quei sidecar teutonici di triste memoria.
D’altronde, nel giro di pochi anni, Scarpitta si sposta rapidamente verso l’informale e contemporaneamente comincia a utilizzare materiali insoliti, come le celebri fasce che rendono plastici e tridimensionali i lavori di quel periodo –i “bendaggi”–, per esempio in Headgear for Artistis (1958). “Non ero formalista” dichiara nel ’92 l’artista a Laura Cherubini “anche se i miei lavori potevano dirsi astratti. Cercavo sempre un determinato contenuto umano e questo mi differenziava da alcuni cari amici che erano in un certo senso più puri di me, ma io ero pronto ad essere sempre più impuro. La purezza per me è puritana.” Così le opere dei primi anni ‘60, dove le larghe pennellate nere la facevano da padrone abbandonando ogni forma mimetica, si scansano in pochi anni per ritrovare il “mito della velocità”. Nell’unica nota d’ingegno dell’allestimento torinese, le carte del 1963 (per esempio Racer) si specchiano in quelle del 1985, con lavori a china e automobili da corsa appena abbozzate.
L’ultima sala è un tripudio di motori, con la triplice stampa foto-auto-bio-grafica su alluminio (Sal is Racer) e la spettacolare Rajo Jack (1964), un’automobile replicata con materiali di riciclo in scala 1:1, affiancata da una doppia pompa di benzina dell’epoca, realizzata negli Usa e recentemente in deposito permanente alla Gam di Torino. Per chi avesse voglia di vedere un altro di questi lavori, sarà sufficiente andare al vicino Castello di Rivoli, nella cui collezione permanente fa bella mostra di se un’altra fuoriserie.
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