Riparte l’attività del Palazzo delle Papesse dopo una chiusura per lavori durata poco più di tre mesi. E dopo la discutibile esperienza della mostra Palazzo delle libertà, debole, pretenziosa, spesso al di sotto del benché minimo standard museale, il Centro d’Arte Contemporanea di Siena si riscatta con un duo d’eccezione -Carlos Garaicoa e Jaume Plensa- accompagnato dal consueto intervento nel caveau, affidato stavolta al britannico Richard Wilson.
Le personali, che occupano ciascuna un piano del palazzo, offrono uno spaccato completo e stimolante della ricerca dei due artisti. Due figure forti, capaci di dare forma ad oggetti e visioni di indubbia potenza espressiva, alla ricerca di un linguaggio poetico che coniughi forma, contenuto, immaginazione, progettualità.
Jaume Pensa (Barcellona, 1955) riunisce sotto il titolo
Ma idee, per Plensa, significa soprattutto domande. Punti interrogativi costellano le sue opere: dai divanetti in pelle che ne riproducono l’intera sagoma (Poet’s chair I e II, 2002), alle domande incise sulle campane tubolari di (13 doubts, 2001); fino al piccolo, ironico palcoscenico di Where did I forget my shoes? (1995), minuta apparizione onirica che sembra fornire -forse più delle grandi sculture- un’efficace chiave di lettura per l’universo poetico di Plensa. Un universo dove i sogni si fanno materia, le idee scultura, le domande filosofia.
Non meno densa la mostra La misura di quasi tutte le cose del cubano Carlos Garaicoa (L’Avana, 1967). Egli dimostra, sin dai primi lavori -databili all’inizio degli anni Novanta- un profondo interesse per lo spazio urbano, inteso come luogo della socialità e della memoria. Segni e simboli vengono riproposti, in una nuova veste, agli occhi degli stessi cittadini, nel tentativo di riaccendere in loro domande sulla propria
Al centro del percorso espositivo, come un grande spazio per la meditazione, sta Jardin Japonés (1997-2004), opera che testimonia una mutazione del linguaggio di Garaicoa, inizialmente più legato ad elementi performativi e sociologici, verso tonalità più liriche e introspettive. Un’intera stanza è occupata da un vero giardino zen, con la classica distesa di sabbia pettinata che lascia emergere capitelli e frammenti architettonici; il tutto circondato da fotografie che immortalano, in un’ulteriore sacralizzazione, fregi e rovine.
La riflessione sull’architettura, protagonista assoluta del linguaggio garaicoiano, trova la sua massima espressione nell’installazione Autoflagelaciòn. Supervivencia. Insubordinaciòn (2003), in cui una selva di piccole maquettes, sistemate su altrettanti piedistalli, rimane legata da sottili filamenti alla matrice progettuale, tracciata –sempre da fili di cotone- sulle candide pareti. Più tesa e angosciante la distopia di Campus o la Babel del conocimiento (2002-2004), un luogo dove gli studenti sono iper-preparati e le strutture impeccabili, ma ogni contatto umano è rigorosamente vietato. Un’opera controversa e densa di riferimenti: dalla Biblioteca di Babele di Borges al Panopticon di Jeremy Bentham; in cui la struttura architettonica diventa simbolo e contenitore di aspirazioni e paure dell’uomo contemporaneo.
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