The Cremaster Cycle, la saga di Matthew Barney è giunta all’ultimo episodio: il terzo, secondo la fabula che tiene unite le diverse fasi, il quinto in ordine di realizzazione.
Il ciclo di film ha avuto inizio nel 1994 con Cremaster 4 ambientato nell’isola di Man, di seguito sono usciti Cremaster 1, 5 e 2; dai campi di football americani all’underground di Budapest, Barney ha esplorato i percorsi scivolosi della psiche, nella sua necessità di esistere (l’evoluzione organica e mentale dell’individuo), e nell’inevitabile deformazione che discende dallo scontro con il “sistema” (gli atroci meccanismi di confronto e competizione che deviano il soggetto dal suo naturale sviluppo). Il titolo, il termine inglese per indicare il muscolo che sorregge i testicoli, contiene una chiave di lettura dell’intero ciclo chiaramente ottimista: allude, infatti, alla capacità di generazione, rigenerazione e trasformazione che non si estingue mai e che, a dispetto del disincanto planetario, non smette di stupire.
In Cremaster 3 Barney, sempre protagonista, veste i panni di un apprendista architetto impegnato nella costruzione del Chrysler Building di New York. L’artista deve operare sotto la direzione di un visionario Richard Serra, il progettista, dal quale dovrà subire, suo malgrado, un intervento chirurgico mirato a omologarne il pensiero. L’azione si svolge negli anni trenta in un’atmosfera “necessariamente” surreale dove, tra riunioni di massoni e modi da mafiosi americani, i significati reconditi vengono presi in prestito dalla probità dei religiosi mormoni e complicazioni psicosessuali da chaise longue del primo Novecento.
La storia, dunque, non è originale anche se Barney amplifica i significati mediante connessioni impreviste dove la mitologia della contemporaneità si contamina con un senso di mistero che affonda le radici nel mondo del soprannaturale: scozzesi vendicativi e donne leopardo conducono, inattesi, allo scioglimento dell’intreccio. Le citazioni, che abbondano in tutta la produzione di Barney, in Cremaster 3 assorbono quasi tutta l’estetica, cinematografica e non, del secolo scorso, dal “Gabinetto del Dottor Caligaris” a Wim Wenders, dal surrealismo iberico al minimalismo di Lucinda Childs. Ogni scelta è funzionale al visione d’insieme, che è densa, tessuta con rigore, e impaginata con tecnica impeccabile. Barney è un virtuoso dell’immagine e delle atmosfere; ogni scena, anche la più monumentale, è curata fin nei minimi dettagli (e questo giustifica il budget di cui il film si avvantaggia).E se a tratti Barney tradisce un eccessivo autocompiacimento, se a volte sembra giocare con i contenitori, un po’ dimentico dei contenuti, questo sarà concesso: Cremaster è un’operazione del tutto autonoma che contiene ed enuncia l’estetica propria dell’artista.
Pietro Gaglianò
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Argomento interessante ben presentato dal nostro caro Pietro Gaglianò.
Vorrei sapere dal sig.r Gaglianò se gli è piaciuto il finale del film e che implicazoni particolari vi ha trovato. Grazie della cortee attenzione
Viva la sincerità! E soprattutto il coraggio di non schierarsi proni a questo neo-conformismo imperante!
in realtà si tratta delle ossessioni di un modello troppo figo esternamente e poco internamente.
dopo aver resitito a tutte le proiezioni dei passati e del nuovo cremaster: grande barney !
molto pretenzioso, quest'ultimo, ma molto bello. resistere a tre ore di proiezione non è poco nel caldo soffocante del teatro goldoni!
barney oltrepassa la vertigine del kitch e dell'estremo esibizionismo per approdare al poetico. io il finale l'ho letto come una visualizzazione del mistero continuo che è il ciclo vita-rinascita: sul fondo del mare viene scagliato un masso che smuove il fondale, qualcosa cambia nell'aspetto delle cose, qualcosa rimane immobile, legandosi al magico mondo delle leggende dell'isola di man (su cui peraltro si apre l'episodio successivo) il risultato è misterioso e aperto a tutto il possibile.