Succede a Prato, in periferia, lungo una strada molto trafficata, dove edifici nuovi si specchiano sulle mura di vecchie fabbriche ormai in decadenza. Blu ed Ericailcane, come spesso in passato, si sono trovati a collaborare per creare qualcosa di spettacolare, è il caso di dirlo. Tutto in poco tempo, due notti di lavoro furtivo sul muro di un capannone dismesso, al riparo dagli sguardi indiscreti dei passanti e soprattutto della polizia. I due artisti hanno lavorato seguendo la loro vocazione fondamentale a portare l’arte altrove, in strada, in modo irriverente, abusivo, e tuttavia legato a doppio filo con quella ormai consacrata tradizione che dai muralisti messicani d’inizio secolo è passata poi alle strade di New York, con Haring e Basquiat, fino ad arrivare ad oggi. Quello della “street art” è infatti attualmente un fenomeno che sta letteralmente dilagando e riscuotendo consensi anche ad alti livelli. Tuttavia il lavoro dei due si discosta da essa proprio nei tratti che le sono distintivi: non più uso della bomboletta spray, non più stencil o tag per firmare i lavori. Necessiterebbe di una definizione ulteriore questo lavoro, ma forse è meglio non denominarlo proprio, seguendo il principio di Blu che “se potesse non si chiamerebbe” e di Ericailcane che ha scelto un nome collettivo che racchiude in sé una molteplicità di influenze e modi di operare. Un’identità che rifiuta l’individualismo del nome, un’arte nata come alternativa a quella ufficiale delle gallerie, dove quest’ultimo spesso diviene sostanza stessa e sostituto del prodotto. D’altra parte si tratta ormai di un anonimato fittizio, dal momento in cui i tratti distintivi delle loro opere sono già di per sé una firma ben più evidente di qualunque segno lasciato sul muro.
Anche in questo caso, seguendo un copione che gli è abituale, i due hanno utilizzato bidoni di idropittura bianca da stendere sull’intonaco con dei rulli per rendere il lavoro più veloce e vernice nera da applicare poi col pennello.
Andando così a costruire le loro caratteristiche immagini di uomini mutanti, creature simili per certi aspetti alle surreali figurine di Bosch, insieme ad elementi organici che divengono quasi stilemi decorativi e, viceversa, appendici artificiali che prendono sinuose forme di esseri viventi. C’è qualche traccia degli intricati grovigli di Haring, dell’opera di alcuni visionari disegnatori come H.R.Giger; potrebbero essere infine gli inquietanti protagonisti che popolano i videoclip in stop-motion dei Tool, nati dall’estro grafico di Fred Stuhre e Adam Jonson.
Il tutto è stato “illegalmente” filmato in fase esecutiva dall’occhio di una telecamera complice, che ha ripreso la genesi e lo sviluppo delle figure sul muro per fornirci un prezioso documento del modo operativo pittorico del duo. Il filmato è stato poi proiettato all’interno dello spazio che ha finanziato il lavoro. In questo caso, per una volta, il filmato trova giustizia pur se riportato nell’asettico contesto della galleria, proprio perchè essa stessa si è fatta committente, complice e infine portavoce dell’atto creativo.
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sara vannacci
mostra visitata il 24 febbraio 2007
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