Arrivano come una corrente selvaggia, come un fiume che ha scavalcato gli argini, sono la prova dell’esistenza di un confine, il senso di ogni frontiera, la violenza dell’attacco e della contaminazione. Si chiamano barbari o forestieri, stranieri, migranti o diversi, quelli che stanno fuori, quelli che minacciano di oltrepassare il guado, col loro fragoroso o mimetico passaggio. E’ l’Asia la nuova “minaccia” dell’Occidente, fatta di singole esistenze in transito: l’altro che avanza e che non si arresta dinanzi a formule, paletti e presunte identità granitiche.
Cina, Giappone, Pakistan, Corea, Tailandia, Vietnam… Pier Luigi Tazzi, dopo un lungo periodo di studio trascorso in Oriente, decide di raccontare la bellissima barbarie di questi ospiti sempre più prossimi, costruendo una mostra equilibrata e intensa.
Huang Shih Chieh (Taipei, 1975) mette su una stanza dei balocchi hi-tech, un tempio profano costruito con oggetti di recupero: bottiglie di plastica, lattine, circuiti elettrici, fili, materiali fluorescenti, piccole creature robot… Al passaggio dello spettatore la dark room prende vita, si attivano luci, rumori, meccanismi cinetici, in un teatrino extraterrestre interattivo, fiabesco e tecnologico.
La platea è occupata dal Caffè di Thaiwijit (Pattani, 1959), uno spazio accogliente in cui il design gioca con l’immaginazione, eludendo l’imperativo categorico della funzionalità per consegnarsi alla libertà poetica di forme organiche. Un lungo robusto tavolo di rete, tappeti, sgabelli, lampade-sculture…: Thaiwijit assembla frammenti di plastica e metallo recuperati da vecchi oggetti, mixando suggestioni industrial a un’eleganza tutta orientale.
Si integrano con l’ambiente il film di Durriya Kazi (Karachi, 1955) -che documenta i tipici camion pakistani per il trasporto merci, decorati da anonimi artigiani locali come templi kitsch o altari preziosi- e la pittura leggiadra di Naofumi Maruyama (Niigata, 1964), evocazioni di una natura sognante a metà tra cartoon giapponese, favola ingenua e tradizione paesaggistica occidentale.
Surasi Kusolwong (Ayutthaya, 1965), noto per i suoi caotici mercatini di cianfrusaglie made in Thailand, gioca a innescare un cortocircuito ironico tra arte, artigianato di serie A e manifattura dozzinale, affidando a maestri ceramisti italiani la macro-riproduzione di animaletti votivi venduti nelle bancarelle di Bangkok.
Ed è l’elemento della tradizione – ironizzato, reinventato, capovolto o recuperato – a ripetersi con insistenza, rifuggendo banali esotismi o localismi per aprirsi a contaminazioni culturali ed esperimenti di linguaggio.
Così, nel breve film di Yang FuDong (Pechino, 1971) un gruppo di ragazzi cinesi è intento a ripercorrere con fare impacciato una serie di riti tradizionali per la preparazione atletico-militare: figure straniate in un moderno contesto cittadino, dentro a un bianco e nero surreale che sospende ogni ragione e significato dell’antico codice.
Zhang PeiLi (Luoyang, 1957) estrae pochi drammatici fotogrammi da un film di propaganda maoista degli anni ’60 e li monta in sequenze lievemente diverse, poi ripetute in loop; la scena, alterata, replicata e desemiotizzata, dà vita a un haiku nostalgico che azzera ogni traccia di senso compiuto, aprendo la narrazione a una dimensione astratta, diluita lungo un movimento a spirale.
Occorre vincere la fatica di ben 200 scalini e arrampicarsi fino alla torre più alta di S.Gimignano per “ascoltare” l’opera di Shimabuku (Kobe, 1969). Dall’interno di una scatola di cartone, riposta con discrezione in un angolo, una vocina racconta del viaggio compiuto per giungere fino in Italia, trasportando, con una cura sentimentale quasi umana, alcuni effetti personali dell’artista.
Un intervento essenziale quello di Koo Jeong-a (Seoul, 1967). Sul muro di un corridoio, in alto, l’artista ritaglia un vano quadrato, chiudendo il fondo con un velo di carta giapponese. Da qui filtra la luce di una lampada allestita nella cucina, dall’altra parte del muro. E’ un omaggio a uno degli angoli più intimi della galleria, un segno poetico che altera appena la forma del luogo. Un verso luminoso, inciso sulla superficie dell’architettura.
helga marsala
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