Dopo due anni dalla precedente personale,
Diango Hernández (Sancti Spiritus, Cuba, 1970; vive a Düsseldorf) espone i suoi ultimi lavori. Una serie di disegni a carboncino su fogli bianchi, senza titolo, e un’installazione intitolata
Power Pencil innescano le tematiche a lui care. La sua poetica ha una forte connotazione critica verso il potere, ma senza che la politica diventi prevalente. Così, un’intera sala ospita l’installazione, costituita da dodici vecchi pali della luce elettrica, muniti ancora degli isolatori e dei cavi, sparpagliati sul pavimento. Hernández è intervenuto dotandoli di una punta, come se fossero grandi lapis. Ed è qui che comincia la complicata riflessione sul potere e il costante rimando alla forza del disegno. Potere della matita o anche matita al potere. Come i vecchi pali costituivano il sostegno della comunicazione e dell’energia, che correva attraverso i fili, ed erano solo un ricordo dimenticato, ora possono ancora interagire nella comunicazione, perché liberati dalla loro funzione originaria, con le loro punte ideali e surreali, che alludono a territori fantastici e mondi inesplorati.
Il bisogno di un luogo altro dove rifugiarsi ed elaborare un’originale e inedita espressione deriva nell’artista soprattutto dagli anni cubani. In un’isola dove la libertà espressiva doveva sempre collimare con le istanze estetiche del potere, Hernández registra ciò che vede e ciò che sente in cinquemila disegni, che nel 2003 si porta dietro lasciando Cuba. Non prima però di esser stato costretto dalle guardie di frontiera a cancellare tutte le scritte che accompagnavano quegli stessi disegni. In salvo è comunque il suo tesoro, il diario corredato da immagini. Da allora, Hernádez non ha mai cessato di disegnare, anche se ora realizza spesso grandi installazioni, come quella presentata alla Biennale di Venezia del 2005. Anche in quell’occasione, pali della luce divelti e un video che denunciava i regimi totalitari, passati e presenti. Con un semplice elenco, come nei titoli di coda di un film che è non mai finito. La realizzazione delle installazioni scaturisce del resto dall’identico procedimento adottato nei disegni e negli schizzi. Come in questi ultimi si può dar forma alle cose più impensate, così l’installazione, in scala maggiore, diviene un ribaltamento della realtà. Ed è ciò che sta alla base del processo teorico e creativo di Hernádez.
Se i disegni esposti in altre occasioni o riprodotti nei suoi libri d’artista rimandavano a una libertà espressiva senza freni e al tempo stesso documentaria, in quelli realizzati per questa mostra si è di fronte a una differente organizzazione del segno. In questa serie di sedici opere, l’intento è sperimentare il disegno stesso. Non si tratta più di raccontare la realtà, ma di metterla alla prova con volumi e blocchi che reggono le proprie forme su equilibri impossibili, liberati da ogni regola fisica. Poiché qui Hernádez non segue dei modelli costruttivi, ma delle idee “pure”; vuole visualizzare quella di equilibrio precario, com’è di fatto la realtà e la vita. Una precarietà che, tuttavia, resiste al di là di ogni previsione.