Ha già passato i cent’anni dalla nascita, ma la Fondazione Bevilacqua La Masa non si stanca di promuovere la giovane arte del Triveneto. Non solo facendo conoscere le opere degli artisti residenti nel Nordest attraverso la sua Collettiva, ma anche offrendo la possibilità di uno spazio per la creazione, assegnando borse di studio annuali per i suoi otto atelier della Giudecca.
Nella galleria di piazza San Marco vengono esposte le opere dei borsisti di quest’anno, sette artisti e un collettivo. Al centro stanno due aspetti di questa esperienza. Innanzitutto, la libertà di sperimentare, di avere uno spazio in cui si possano configurare tutte le sfumature della scelta, non soltanto decisioni e risultati, ma anche problemi e dubbi, ipotesi e tentativi. E, in secondo luogo, l’opportunità di condivisione che deriva dal trovarsi a stretto contatto con altri artisti, possibilità di dialogo e confronto che trasforma l’esposizione, sin dal titolo, in una festa, prendendo a emblema l’aperitivo rituale della socialità veneziana. Non è un caso, quindi, che i membri dell’unico collettivo,
6421, abbiano deciso di partecipare singolarmente, senza mediazione, ciascuno con la propria voce.
Tra le opere presenti si scorgono accenni di rimandi e interconnessioni. In stretto contatto sono le opere di
Brunno Jahara (Rio de Janeiro, 1979) e
Nemanja Cvijanovic (Rijeka, 1972).
Il primo trasforma l’ingresso della galleria in uno
showroom paradossale,
Buy Bye, dove i pezzi unici in vendita sottovuoto a prezzi più che accessibili mettono gli acquirenti di fronte al dilemma fra utilizzo o conservazione. L’artista croato riflette sulla mercificazione dell’arte con un’opera poco incisiva rispetto ai suoi standard, con maschere veneziane disposte ordinatamente su due pareti e immerse nelle note di Vivaldi, antonomasia di Venezia e di una bellezza consumabile e involgarita.
Con una strategia espositiva affine, ma con un più ricercato gioco tra vuoti e pieni, si presenta la quadreria di disegni di
Adriano Nasuti Wood (Buenos Aires, 1976). Assemblati sulle pareti assieme a polaroid e piccoli oggetti, sono un diario fatto di residui, che mescolano in due momenti, tra lacune e sovrapposizioni, la cronaca e il privato. L’esperienza personale, elevata a una dimensione collettiva, ritorna nell’opera più convincente della mostra,
Il silenzio è d’oro di
Giuliana Racco (Toronto, 1976). Due tende nere decorate da colombe aprono su uno spazio in cui biglietti da visita neri intimano il silenzio con la scritta dorata
Shhhh. Al centro della stanza, un podio con una pisside d’oro traboccante di liquirizia. Il gusto eccessivo e contraddittorio di una transustanziazione impossibile, simbolo di una società che si nasconde sotto il manto dell’omertà e in cui il silenzio s’impone non soltanto alla denuncia, ma persino corrompe la Parola che salva.