Che la scultura del periodo tra XIX e XX secolo abbia reagito con un certo ritardo alle sollecitazioni della pittura per una rivoluzione del gusto, è cosa data fin troppo per scontata. Certo a livello generale questa idea è da considerarsi corretta almeno in rapporto al numero delle testimonianze e degli artisti che, nei rispettivi due campi, operarono nel verso della modernità. D’altro canto già Camillo Boito nel 1880 aveva detto che “La scultura è a muoversi più lenta della pittura… La natura della statuaria non si piega docilmente a ciò ch’è il sommo del desiderio moderno – la singolarità”.
La mostra veronese punta a ricostruire in una rigida sequenza cronologica tutte le tappe di tale evoluzione così come si è venuta sviluppando nella colta città scaligera. All’Officina d’arte sono documentati gli anni dal 1900 al 1960, mentre le testimonianze del quarantennio successivo sono esposte a Palazzo Forti.
Nel catalogo a corredo della rassegna è un impegnato e dettagliato testo di Luciano Caramel (gli altri contributi sono di Mauro Corradini, Elena Pontiggia e lo stesso Cortenova) nel quale il critico inquadra storicamente la mostra ma soprattutto ne illustra la gestazione teoretica e le scelte curatoriali.
In particolare segnaliamo la sottile denuncia di una acuta crisi del senso della storia nella contemporaneità che ha generato un metodo storico che tende a privilegiare l’analisi sincronica degli eventi più che il loro inquadramento in un’ottica diacronica, che viene qui favorita. E mi piace pensare che “il gran rifiuto” del bravissimo artista Innocente all’invito a partecipare alla mostra, motivato sulle pagine di Verona Live dallo stesso artista con la mancanza di completezza, indirizzo e di una impostazione teoretica della mostra, sia il coerente comportamento di chi, nella ricerca artistica, ha completamente assorbito e fatte proprie le strategie dell’arte contemporanea che intende la realtà come un flusso estremamente dinamico, precario, privo di gerarchie e riferimenti spazio-temporali. La storia come entità astratta. Guarda caso proprio A.B.O., un paio di anni fa leggeva nell’opera di Innocente l’intento di creare, leggitimamente rispetto all’età attuale, percorsi instabili all’insegna di una “comunicazione moltiplicata e simultanea”, la testimonianza di un mondo in continuo stato di “tensione permanente”.
Per parte nostra ci limiteremo alla considerazione pedestre che questa mostra suona molto come la rivincita morale di quanti avevano aspramente criticato l’operazione di inaugurare il palazzo della Gran Guardia restaurato con opere minimaliste della collezione Panza di Biumo. All’epoca vi fu chi criticò la mancata destinazione di quegli spazi espositivi alle opere in deposito a Castelvecchio e quindi agli artisti locali: un atteggiamento provinciale che non seppe rendere il giusto merito ad una grande iniziativa culturale di spessore internazionale.
Ma al di là di tutto ci pare di poter sintetizzare in un concetto semplice l’errore di fondo che è stato compiuto nell’organizzare questa mostra per la scultura veronese, e cioè il dato storico che nel ‘900 Verona ospitò artisti di rilievo senza produrre alcuna scuola ed ancor meno nell’ambito delle arti plastiche. Il volere a tutti i costi legittimarla ci pare una forzatura evidente.
Corre tuttavia l’obbligo di rendere il giusto merito ad alcune figure di spicco e ad opere convincenti. Ricordo dunque la “Bagnante al sole” (1961) di Alberto Colognato, vicino al dinamismo di Arp, il tardo futurismo di Renato di Bosso, la suggestiva installazione di Stefano Cattaneo (“Senza titolo”, 1996-2001) che sotto una calotta di cellophane alveolare ricostruisce uno spazio sommerso ovattato che potrebbe essere comodamente abitato dagli azzurrini “Bambini acquatici” (2001) in gomma piuma di Maria Teresa Padovani. Bello è anche il mobile bar poverista (1967) di Federico Chiecchi ed è atro e misterioso l’accesso “Sulla via di Damasco” (1989) di Igino Legnaghi in ferro scuro. Documentata è anche la presenza di Berrocal, l’attività di Gino Bogoni (“Le grandi ruote” in bronzo del ’65) e quella di Mancino con i suoi objects trouvée.
In conclusione e riferendoci ancora all’intervento di Caramel, ci pare singolare, giustappunto in un’ottica diacronica, che le didascalie in mostra servano quasi esclusivamente a narrare la storia degli artisti più che a descriverne le opere esposte.
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