Nella Biennale del 2001 i Kabakov avevano già proposto un problema cognitivo per il futuro. Un treno ormai in partenza, frammenti di quadri e tele sparsi in una passerella di legno, un ampio spazio vuoto dopo un’immaginaria ressa per salire sui vagoni: Non tutti saranno portati nel futuro, annunciavano gli artisti. In altre parole l’installazione poneva interrogativi epocali al sistema dell’arte, e cioè come vedranno gli uomini del futuro e come giudicheranno i valori del presente, ammonendo l’osservatore sull’impossibilità di poggiare i piedi su salde basi conoscitive, perché non possiamo giudicare il valore dell’arte nella continua variazione dei parametri e dei paradigmi, delle griglie di valutazione e dei modelli ermeneutici.
Quest’anno Ilya ed Emilia Kabakov, con l’opera Where is our place?, trasformano l’interrogativo in una esplicita rappresentazione.
Il visitatore trova a fargli compagnia i piedi e le gambe di gigantesche figure che evocano osservatori un po’ particolari, appartenente ad un’altra epoca. Stanno osservando la loro mostra: ampie tele con lussuose cornici che riusciamo ad osservare solo parzialmente. Il nostro soffitto ci impedisce di vedere il loro mondo. Oltre la cintola di questi enormi personaggi non possiamo osservare.
Noi, osservatori del nostro tempo, siamo sotto ed osserviamo alla nostra altezza, sulle pareti dello spazio espositivo, numerose fotografie in bianco e nero degli anni ‘60 e ‘70 con vicino frasi e versi poetici che non descrivono le immagini proposte, ma suggeriscono tramite l’analogia una sottile e malinconica tensione emotiva. Una mostra d’arte concettuale.
Poi ci accorgiamo di un paesaggio moderno in miniatura inserito attraverso ampi squarci dentro il pavimento dello spazio espositivo, e ci abbassiamo per identificarne i dettagli. Ma allora anche noi siamo dei giganti in relazione ad un altro mondo.
L’uomo si trova nel mezzo degli strati di una sedimentazione culturale cui attribuiamo il nome di “storia”. Il passato sopra di noi, come il futuro sotto, come il presente di fronte, sfuggono ad una ordinata cognizione. Non vediamo perché anche il nostro sguardo è naturalmente collocato all’interno del tempo ed è parte della storia; uno sguardo interno al mondo non può squadrare la forma del mondo e l’uomo vive questa radicale impossibilità.
L’opera dei Kabakov trasforma l’arte in un sistema di coordinate filosofiche che delineano una condizione esistenziale. Si tratta dell’approdo più affascinante del concettualismo.
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stefano coletto
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