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fino al 9.I.2011 | Luca Campigotto | Venezia, Museo Fortuny

di - 30 Novembre 2010
Luca Campigotto (Venezia, 1962) si presenta in
questa mostra con 40 immagini di grande formato a colori e in bianco e nero,
tutte tratte dallo splendido volume My
Wild Places
appena uscito per Hatje Cantz.

Per Campigotto fotografare è vivere e viaggiare, come se
fosse in missione per catturare frammenti di paesaggi da legare alla memoria
per sempre. Ci sono tutti i continenti nelle immagini in mostra, ma prevalgono
le fotografie scattate in Cile e Argentina. Gli scenari selvaggi e solitari
della Patagonia trasmettono una sensazione di costante libertà che è sempre
presente negli spostamenti del fotografo. Il viaggio, in quelle parti del
mondo, richiama le fotografie di Bruce
Chatwin
, realizzate per raccontare le sue storie. Ma le immagini di
Campigotto sono l’altra faccia della medaglia di quelle terre e di quel tipo di
scatti. Se per Chatwin le immagini sono il supporto alle parole, sono tutte
ritratti di famiglia o di piccoli agglomerati urbani, in Campigotto ciò che è
messo al centro del vedere è il luogo naturale, anzi, come sostiene egli stesso,
l’”idea del luogo”.

Come un esploratore di spazi, il fotografo veneziano è
interessato a scoprire, rivivendo la visione che potrebbe aver avuto il
viaggiatore di un’altra epoca. Cosa avrebbe visto se non l’incontaminatezza e la
durezza del paesaggio? Quasi fosse simile all’occhio del naturalista e dello
scienziato d’altri tempi, Campigotto registra e porta a casa immagini di luoghi
lontani nello spazio e nel tempo. Le fotografie sono i ricordi dei suoi viaggi
che sceglie tra molte per meglio ricordare, per riordinare nei cassetti della
memoria la sua vita. In queste terre ha cercato e trovato la forza dei luoghi in
cui a volte è solo il vento a esistere.

Nella Tierra del Fuego, in Argentina, ciò che ha
registrato sono gli spazi e gli “orizzonti
forti
” che diventano, per riduzione cromatica, cielo, nubi, terra e acqua
del Rio Grande. Il biancore spettrale della fotografia Ghiacciaio Perito Moreno (2000) richiama il nulla, a differenza di
Chatwin, in cui la presenza umana è il tutto di un luogo. Quest’ultimo è colto
nella sua purezza e solitudine. La visione del fotografo è completamente
affrancata dai meccanismi del vedere dominanti: infatti, il risultato finale,
ritoccato anche nel tempo, vuole restituire al paesaggio la sua verità, come se
non fosse mai stato visto.

La sua ricerca è convogliata su qualunque luogo perché
libero da codici della fotografia corrente e usa indistintamente con
disinvoltura il colore e il bianco e nero. Prendiamo ad esempio i deserti,
quello di Atacama in Cile, fotografato nel 2000, quello di Lut in Iran, ripreso
lo scorso anno, e il deserto di Ramlat as-Sab’atayn (2006), nello Yemen: hanno
in comune una cosa, le piste. Piste che sono la traccia di passaggi, perché per
avere una percezione corretta del deserto si deve attraversarlo, camminarci in
mezzo, ed è quello che ha fatto Campigotto, come Chatwin.

Se Chatwin dice che “la
vita è un viaggio attraverso un deserto
”, Campigotto lo ha guardato,
vissuto e rilevato con la sua macchina, per poi attraversarlo nuovamente nel
suo immaginario e proporcelo come ora lo vediamo.

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dal 3 settembre 2010 al 9 gennaio 2011

Luca Campigotto – My wild places

Palazzo Fortuny

San Marco 3958 (Campo San Beneto) – 30124 Venezia

Orario: da mercoledì a lunedì ore 10-18

Ingresso: intero € 9; ridotto € 6

Catalogo
Hatje Cantz, € 58

Info: tel. +39 0415200995; fax +39
0415223088; mkt.musei@comune.venezia.it;
www.museiciviciveneziani.it

[exibart]

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