“Siamo dadi gettati nel mondo” è il commento istintivo più pertinente e acuto (non concepito da un critico, ma da un operaio) davanti al fare arte di Lucio Pozzi.
Ogni mostra alla Galleria Michela Rizzo si presenta come un evento. Dividendo le opere nei due luoghi contigui ma separati -quello raccolto della galleria e quello abitabile e dilatato della casa-spazio espositivo- gli artisti creano un flusso dialogico dinamico e stimolante tra il qui e il là. L’arte di Pozzi è proteiforme, versatile e aperta al continuo mutamento, come la vita stessa. Non ancorata ad uno stile definibile, uguale a sé stesso e riconoscibile come richiesto dal mercato, è volontà totalizzante di comunicare, è liberazione di intuizione e impulsi creativi in un’esplosione di segni, sensi e significati non predeterminati da imbriglianti formule, intenzioni e finalità. “Quando inizio a dipingere, non so affatto cosa verrà fuori”. La sua mancanza di scopo riflette “la mancanza di scopo della vita”.
Ha riempito con un pennello sottile lo spazio piccolo della galleria con Crowd Group una densa e fitta folla di immagini turbinanti che spiccano in acrilico nero sul bianco della tela, con sprazzi nascosti di colore rosso, giallo, blu, verde e rosso. Sono visi, occhi bendati, grate, fiori, zampe d’animali immaginari, mostri, teste d’uccello, gambe che si tuffano, contenitori, seni e ventri gravidi di donne, mani, elementi figurativi, organici e geometrici in un racconto mitopoietico ininterrotto, dove è chi guarda che fa l’opera intrecciandoci fili di vissuto e ricostruendo una delle tante possibili unità interpretative. E’ un florilegio brulicante che conosce gli echi delle storie raccontate da Chagall e dal Ricassodi Guernica e combina, intrecciandoli, reale e fantastico in un’unica materia di vita permeabile allo scambio e alla comunicazione se non sempre alla comunione. “Il dizionario delle forme è aperto ed io ne uso quante più pagine posso” dice l’artista “come il poeta usa tutte le parole del linguaggio nel quale scrive”.
Lo spazio più grande della galleria è invece cadenzato da tele tirate su legno, piccole come il palmo di una mano, le Texture mini paintings che, a differenza del fluido racconto del Crowd group hanno uno spessore su cui i tocchi di colore germinano, si addensano e aggrumano e condensano, diventando nuclei, macchie, topografie, e, come gli incontri che punteggiano l’esistenza, trame di vissuto. Nell’assemblare le sculture dorate in ottone -che fanno da contrappunto alle Texture– Pozzi ricicla quello che resta in fonderia da fusioni di altro, gli scarti, per regalargli nuova vita. “Non parto mai con un’idea precisa, assisto alla mutazione e ai cambiamenti messi in atto dal processo di trasformazione, mi arrendo al processo stesso”.
Milanese, affascinato da New York, ha finito per restarci. Ha esposto in gallerie quali Gianenzo Sperone, Leo Castelli, Yvon Lambert, ha presentato il suo lavoro a Documenta di Kassel e alla Biennale di Venezia. L’Arte o l’arte è per Pozzi utopia, è mettere a fuoco ciò che altri non vedono. Da anni porta in giro in diverse parti del mondo e in lingue differenti la sua conferenza “I prossimi 475 anni della mia arte e della mia vita” che oggi la Galleria Michela Rizzo ha stampato in un elegante opuscolo.
myriam zerbi
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