La dimensione privata della Fondazione Querini Stampalia -in cui la moderna fruizione museale si innesta su un edificio che è essenzialmente una raffinata dimora che testimonia agi, ricchezza, ma anche amore per la bellezza- è una delle caratteristiche più peculiari dello spazio veneziano, che da vari anni si è aperto all’arte contemporanea con il progetto
Conservare il futuro, cui hanno partecipato negli scorsi appuntamenti artisti come
Giulio Paolini e
Kiki Smith. È in questo contesto per certi aspetti intimo che si collocano le opere di
Stefano Arienti (Asola, 1961; vive a Milano), che ha pensato per il palazzo degli interventi di particolare interesse, sebbene talvolta minimi e decisamente
understatement da sembrare quasi decorativi, con qualche errore di strategia.
La prima istallazione che s’incontra passa inosservata, tanto che lo spettatore la lascia alle spalle senza nemmeno rendersene conto, poiché è perfettamente mimetizzata nel contesto dei saloni del piano nobile, fra le tappezzerie da parati. Si tratta di una pellicola adesiva incollata sulla porta tagliafuoco bianca (che si presenta così
double face, ma con ciascun lato dello stesso colore della rispettiva parete), che solo all’uscita dalla pinacoteca i più attenti possono cogliere. È un intervento calzante, raffinato nella sua leggera ironia, e che piace anche perché sembra aderire senza riserve all’insegna del motto epicureo “
vivi nascosto”.
Nelle sale successive sono in mostra piccole sculture dell’artista mantovano, tra cui gli orari dei treni o vecchi numeri di Topolino piegati a mo’ di origami in modo di sembrare delle turbine, e numerose serie di
Libri tranciati (illeggibili poiché rimane solo il dorso), collocati sui tavoli e capaci di relazionarsi con il contesto in modo giocoso. Ma l’opera più interessante, e che dà il titolo alla mostra, è l’inaspettato
Disegni dismessi, costituito da un mappamondo di vetro soffiato da rigattiere, su cui Arienti ha inciso meridiani e paralleli, e posizionato su una delle scrivanie in legno intarsiato. Il gioco di risemantizzare un
object trouvé funziona molto bene e non si avverte, come capita alla lunga nelle altre sculture, la riproposizione della medesima azione.
La sala centrale del terzo piano è caratterizzata da una grande installazione sul cui perimetro sono stati collocati in serie dei disegni di spighe, di cui risulta difficile capire la ragione, come anche dell’istallazione
Enciclopedia, in cui se i tomi recuperati di vecchie enciclopedie -che raccontano sia il vissuto generazionale dell’artista che un ormai sorpassato sforzo utopico di spiegare e classificare il mondo- e i materassi possono favorire la consultazione dei volumi da parte dei visitatori, alludendo a un approccio autobiografico, la lana cardata induce a suggestioni
arte povera fuori luogo.
Molto meglio i pur decorativi tavoli in onice e soprattutto i vecchi long playing traforati che, fissati al soffitto con un sottile filo di nylon, tanto inutili quanto belli danzano sotto gli occhi dei visitatori.