La mia vita è intimamente legata al mio lavoro, nel quale interferisce fortemente il mio quotidiano, il qui ed ora. In questo caso uno degli ultimi viaggi che ho fatto – per questo voglio nominarlo – è stato in Bolivia. Ho sentito di essere in un altrove che fosse veramente altrove. Ho attraversato molti luoghi: Sud Est asiatico, Sud America, Brasile, Argentina, Perù ecc., ma quello è stato l’unico posto in cui non ho trovato i riferimenti a cui ero abituata, e se succedeva sembrava un errore di percorso. È stata la prima volta in cui mi sono sentita fuori dalla comfort zone in un senso bellissimo. Ho seguito un itinerario particolare, del tutto lontano dalle località oggetto di mire turistiche: posti sperduti, remoti, luoghi a tratti anche impegnativi.
Ci sono rimasta circa dieci giorni, faceva parte di un viaggio più lungo che è durato due mesi, di cui uno in Uruguay per un lavoro. Da lì, sono andata alla volta di Argentina e Brasile, dopodiché la Bolivia. È stata l’unica volta in cui ho percepito di aver perso tutti i riferimenti, e credo che sia stato rilevante per ciò che cerco nel lavoro. Sarebbe stato difficile, lì, percepire gli oggetti connotati e comuni che tendo ad assemblare ed includere nelle installazioni, assemblandole a parti modellate da me. Mancava la sovrapproduzione a cui faccio riferimento per molti dei miei processi, e la soggettività che provo a far interferire con questi prodotti – lavorando come una macchina che replica se stessa – era onnipresente in questi paesaggi dove questa automatizzazione quasi non esiste, o dove moltissime persone non hanno a che fare con tutta la formattazione a cui siamo costantemente sottoposti.
Penso agli avatar, alle immagini del profilo: tutto ciò che serve ad identificarci – scegliere come descriverci – come essere umani all’interno di un formato non umano. Quando sono andata in Bolivia, ho sperimentato l’assenza del formato, ed è stato abbastanza incisivo tornare a lavorare sul clash tra queste forze opposte. Credo che per questo i miei siano viaggi di osservazione, una forma di arresto. Mi sento come se stessi caricando tutto il tempo che ho di immagini, di riflessioni e questo ne cambia la forma. Mentre il tempo che gestisco qua sembra brevissimo, in viaggio mi sento all’interno di una sorta di bolla e se al ritorno tutto pare essere trascorso in modo estremamente veloce, mentre lo vivo è un momento di immagazzinamento e assorbimento. Il viaggio ha un tempo tutto suo, e la cosa bellissima è che il ricordo incide sulla percezione della durata. I quattro giorni trascorsi attraversando un deserto salato in Bolivia, li ricordo come un tempo dilatato. In questi momenti tendo a documentare attraverso le foto e se viaggio da sola scrivo molto. Non sono foto “souvenir”, sono foto che servono alla mia ricerca e ai miei lavori. Spesso le immagini che scelgo per le mostre sono state scattate durante questi viaggi. Ricordo la foto di una gatta con una collana che ho incontrato a Jakarta, oppure l’immagine di due piccole sculture ingabbiate in una teca di vetro ormai sporchissima, diventata poi invito per la mostra dry salvages ad Amsterdam.
Ho notato che, nel tempo, tantissime immagini viste sono riemerse nelle opere quasi come dei paesaggi, come delle condizioni fisiche. Penso ai primissimi lavori con i cavi orizzontali e la materia sospesa: ho capito che erano legati al paesaggio rurale e meccanizzato. Un’altra peculiarità, è la possibilità del viaggio di appropriarti di una vita diversa. In un viaggio in Albania fatto una quindicina di anni fa diventai amica con un signore che campava cogliendo salvia sulle montagne sopra i bunker di Porto Palermo, dove viveva e, in qualche modo, mi ospitò per quattro giorni, includendomi nella sua vita. Ho vissuto come viveva, andando a raccogliere la salvia, mangiando qualcosa di frugale durante il lavoro e penso che questo non sarebbe potuto succedere nel posto da cui vengo. Probabilmente avrei già conosciuto tutto di quella persona. Questa non appartenenza invece, mi permise di entrare all’interno di altro. È quella sensazione che ti rende ricco e vicinissimo a qualcosa che fino a poco prima era sconosciuto. Per quanto transitori, quei quattro giorni sono diventati anche miei, influendo da lì per sempre il mio modo di vedere le cose. Lo vedo nella mia casa che è una sorta di collezione e deposito di esperienze. Viaggiando divoriamo pezzi di mondo che non conosciamo, ne rubiamo un pezzo per capirne qualcosa, e possibilmente portarne una parte con noi.
Forse ora il viaggio è in parte cambiato e personalmente sento la necessità di cercare posti lontani da se stessi e dalla folla che li divora. Alcuni luoghi sono diventati altro da sé. Andavo spesso nei dintorni di Civita di Bagnoregio, la “città che muore”. Lì ricordo una notte del 24 dicembre camminando sul ponte che la tiene legata al resto, un vento fortissimo e mai nessuno a visitarla. I posti cambiano. Per me adesso Civita non esiste più.
Testo di Giulia Cenci
A cura di Giovanni Bartolini
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La mia fotografia è intrisa di solitudine, bellezza e femminilità.