Eccoli lì, gioviali e sornioni, due registi svedesi in un appartamento che parlano di un vecchio documentario, girato da uno dei due nel lontano 1967.
Così comincia Le cinque variazioni, un progetto (che stranamente circola nelle sale cinematografiche sotto le categorie di “documentario” o “film per tutti”, ma che in realtà è piuttosto difficile definire in una parola) nato dalla mente vulcanica di Lars Von Trier con la complicità di Jørgen Leth.
Il primo è l’enfant terrible della cinematografia scandinava, amato od odiato, senza mezzi termini, colui che ha ideato il Dogme 95, gruppo d’azione e provocatorio decalogo-voto di castità filmico. Il secondo è un “rispettabile” regista di documentari (e non solo), meno noto al grande pubblico ma ben conosciuto dalla critica per avere sempre perseguito un approccio anticonvenzionale nei propri lavori. L’oggetto del contendere è il suo documentario The perfect human: Lars Von Trier “sfida” l’amico e collega a rifarlo per cinque volte, imponendo una serie di ostacoli sempre più vincolanti. Si narra che tutto sia cominciato con uno scambio di email; i susseguenti accordi e i risultati delle “prove” sono stati diligentemente filmati, ovviamente con camera a mano.
Le costrizioni a cui Leth è sottoposto mettono a nudo in realtà alcuni “schematismi acquisiti” del fare film: così, ad esempio, si comincia con la lunghezza di un’inquadratura, che non deve superare i 12 fotogrammi, e con l’imposizione di una location mai vista, si passa al diktat di mostrare cose che di solito non si mostrano, con il regista che diventa protagonista, poi si arriva alla mancanza di regole, si scivola nel cartone animato (genere aborrito da entrambi) e si arriva a far firmare al regista un film che lui non ha girato. Ogni volta, Leth supera elegantemente l’ostacolo.
Sembra di assistere a una sorta di “terapia” che coinvolge l’autore in una continua “autoanalisi” (fino al limite estremo di negargli l’auctoritas sul proprio film!), ad una decostruzione sfibrante del proprio operato (o meglio: della propria opera), ma anche lo spettatore, che in questo gioco stilistico vede mettere a nudo man mano le false certezze della rappresentazione filmica, ne coglie canoni, generi e convenzioni. Allo stesso tempo, Von Trier sembra non prendersi troppo sul serio e propone questa sfida quasi come un divertissement, continuando lungo una linea d’azione che sembra essergli particolarmente congeniale. Proprio attraverso le rigide regole del Dogme aveva richiamato l’attenzione sugli eccessi e sugli orpelli, spesso inutili, della filmografia contemporanea, aveva lanciato una sfida al rigore e
Un unico rammarico: il doppiaggio della versione italiana…
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