Otolab è un collettivo. Come lavorate? Vi date un metodo?
L’approccio che abbiamo è quello di un confronto sul progetto in funzione dell’evento. Vogliamo ogni volta proporre “la cosa giusta” per ciascun luogo e occasione, con performance di live media, audio e video. Ci definiamo un contenitore di progetti: abbiamo basi estetiche comuni, ma ciascuno mantiene una propria individualità, i progetti vengono discussi in gruppo e si arricchiscono dei contributi reciproci. Il vantaggio del collettivo è proprio il miglioramento tramite il confronto.
Per quanto riguarda il metodo, tendiamo a lavorare “in sottrazione”, ci concentriamo sull’idea forte, evitiamo infrastrutture che magari hanno maggior riscontro nell’immediato ma che alla lunga possono dare pesantezza, sfrondiamo quello che può risultare estraneo all’idea di base.
La vostra “marca distintiva” è una grafica molto lineare e minimale (dall’utilizzo dell’oscilloscopio alla grafica vettoriale). Ultimamente, però, per esempio a una serata al Rolling Stone di Milano, avete utilizzato anche delle riprese, mixate con immagini che ricordavano i quadri di Mirò…
Quella era una serata atipica per diversi motivi: la parte a cui ti riferisci era stata sviluppata da uno di noi in particolare, un pittore, che ha usato la grafica vettoriale con un taglio, appunto, più pittorico. Come dicevamo, ci sono varie individualità che fanno proposte all’interno di un gusto estetico comune, poi ciascun set viene rielaborato da persone diverse, così da creare un continuo spostamento e interscambio di materiali. Inoltre, dopo una prima parte in cui abbiamo curato anche il sound, abbiamo affiancato con le nostre immagini un dj che non fa parte di Otolab. Quello che rimaneva tipicamente nostro era il gioco fondato sull’aritmicità/poliritmicità, sulla frammentarietà.
I singoli o dei sottogruppi possono portare avanti idee anche molto diverse: come sn (un professore di composizione), che ha presentato un suo progetto video accompagnato da musicisti classici. Di solito però preferiamo realizzare uno spettacolo audio e video, e rimaniamo fondamentalmente legati alla musica elettronica.
Vi siete esibiti in tutta Italia e all’estero, avete avuto contatti con diverse esperienze. com’è la situazione del vjing in Italia secondo voi? Quali differenze con il resto d’Europa?
Non pensiamo che ci sia una grande differenza qualitativa o quantitativa rispetto alla scena europea. E’ molto diverso il panorama, l’ambito ricettivo di questa “disciplina” artistica, di questo tipo di sperimentazione audiovisiva. All’interno del panorama italiano ci sono dei centri come Bologna o Roma che sono più “avanzati” per sensibilità o luoghi deputati, mentre Milano è ancora indietro. E’ una situazione frammentata, ma molto ricca. Non mancano le cognizioni tecniche o la creatività, mancano piuttosto i luoghi adatti, le occasioni, le istituzioni in generale. In Italia anche il panorama musicale è piuttosto fermo, la club culture è molto più radicata in Inghilterra, in Germania o in Olanda e questo riflette anche la cultura elettronica in generale; quella italiana è ricca a livello di ricerca, ma manca a livello di massa: rimane un fenomeno di nicchia, oppure diventa un trend, per cui si chiamano dei “nomi” per una serata, si crea l’”evento”senza riflettere una scena reale o creare una vera continuità. Paradossalmente, ci sono artisti sperimentali italiani noti all’estero e totalmente sconosciuti qui.
Uno dei nostri obiettivi è stato quello di organizzare eventi, ma qui è difficile trovare le strutture, così tutto va organizzato da zero e queste pratiche rimangono comunque underground. Come nel caso di V_, per cui abbiamo cercato di selezionare le esperienze più rappresentative all’interno del panorama vjing, oppure come La Foresta delle idee, progetto più vicino al live media, proposto alla serata No Vapour del Leoncavallo, che ha richiamato più persone. L’impressione, però, è che – come dicevamo prima – ci sia poco interesse verso la sperimentazione e che questo avvenga anche nei centri sociali, praticamente gli unici spazi a Milano dove si fa vjing. Convogliare le persone è difficile e le dinamiche del pubblico verso le pratiche del vjing sono complesse. Succede che alcuni eventi, organizzati per un pubblico non direttamente legato al vjing, propogano al loro interno performance di questo tipo: lì magari c’è un afflusso notevole, ma non è direttamente provocato dal vjing stesso.
Il panorama delle gallerie, poi, è abbastanza chiuso per la videoarte, la sperimentazione che non “fa cassa” non viene considerata e anche questo è un grosso vincolo. Arno Coenen, ospite di una delle serate V_ al Bulk, fa parte per esempio di un comitato pubblico olandese che eroga finanziamenti agli artisti. In Italia invece…
Avete al vostro attivo premi come Italian Live Media Contest 2002 e Netmage
Per Netmage abbiamo lavorato sul progetto videomoog, un sintetizzatore video e audio analogico realizzato da un ragazzo che si fa chiamare Giovanni XXIII, un “artigiano” che realizza apparecchi ad hoc. Seguendo l’idea di una partitura a più layer e di un’integrazione tra audio e video, abbiamo preparato 3 consolle indipendenti e sincronizzate: 3 performer, controllando altrettanti potenziometri, hanno prodotto suoni e immagini. Lo abbiamo presentato come workshop; il giorno successivo abbiamo eseguito un live set audiovisivo, ma non realizzato con il videomoog.
Dopo quello, vogliamo sviluppare un’evoluzione più spinta del quartetto.swf, con 4 schermi e 4 casse mono per ottenere un effetto quadrifonico. A questo punto, il vjing puro ci affascina meno rispetto a certe pratiche integrate di audio e video. La nostra direzione è sicuramente verso il live media.
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