Se è vero che andiamo verso una cultura sempre meno tattile e sempre più legata all’immagine virtuale, riprodotta e digitalizzata, il Futurshow 3004 ha offerto un assaggio (acido) del futuro prossimo venturo.
A partire dall’entrata, con la videoinstallazione dall’impianto binario fuoco-acqua (di Fabrizio Plessi), per continuare con la Gallery dedicata ai grandi artisti e pensatori dell’attualità: un coacervo di video proiettati contemporaneamente, il cui audio si mescolava in una sorta Domus Phantasiae di folenghiana memoria, dominata dalla totale inintellegibilità. Eco, De Kerchove, Bergonzoni, Jovanotti, Mendini, Sottsass e altri lumi del nostro tempo cercavano di comunicare messaggi che probabilmente nessuno dei visitatori è riuscito a recepire, nel senso più fisico del termine.
La sezione espositiva è stata evidentemente organizzata sul modello di un labirinto per cavie: file di stand identici, simili a impenetrabili cubi bianchi, identificabili dall’esterno solo da una scritta e bombardati su ogni lato da videoproiezioni decontestualizzate. Una volta all’interno, ci si trovava nell’ennesimo microcosmo video-compulsivo, ma questa volta riconoscibile perchè brandizzato: dai trailer ai videoclip. Gli unici spazi aperti erano quelli in cui impeccabili imbonitori presentavano gli ultimi ritrovati della tecnologia ready to buy.
Non andava meglio in I love 3 T, sezione più prettamente “artistica”: Yoko Ono, Jean Michel Basquiat, Topo Gigio, Sonja Vukicevic e altri convivevano in video uno accanto all’altro all’interno di filari di cubi immacolati. Anche qui vinceva chi ce l’aveva più alto. L’audio.
Le installazioni di Video Village (festival di media art promosso dal Futurshow che ha presentato una retrospettiva del World Wide Video Festival di Amsterdam) hanno invece saputo mostrare prospettive decisamente più profonde attraverso opere di artisti provenienti da tutto il mondo. Indagando passato recente, nuove ossessioni del presente e visioni sul futuro, l’esposizione ha dimostrato come gli orizzonti temporali si leghino in una sorta d’irrefrenabile continuum sociale, e che progresso, globalizzazione e identità culturale non siano dimensioni necessariamente antitetiche.
Il riflesso di una storia ancora “presente” è il soggetto dell’installazione della sudafricana Minnette Vàri, che nelle proiezioni distorte di un monumento nazionale mette a nudo le contraddizioni che hanno segnato il suo paese. O della “parabola” di Wang Gonxing, che affronta con umorismo l’iconografia cinese del sole-Mao. L’angoscia del presente serpeggia nel l’immagine dell’uomo perennemente in fuga del video di Sebastian Dìaz Morales, nella corsa irrefrenabile e a tratti inquietante di Martijn Veldhoen, nei vizi capitali delle installazioni di Eder Santos, nelle allucinate finestre noir di Luigi Rizzo. Il futuro (o è anch’esso già presente?) vive infine nei corpi innestati e fluttuanti in una sorta di coma coreografato dell’installazione su più schermi di Anne Quirynen, An-Marie Lambrechts e Peter Missotten.
Alla fine, come ha detto qualcuno, il futuro è obsoleto.
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