Il capoluogo lucano, nel mese di dicembre, è teatro del Potenza Film Festival. Alla sua seconda edizione, il festival internazionale si propone come luogo di studio e ricerca cinematografica attraverso la promozione di nuovi autori e di forme di espressione innovative (phonemovies, videopoetry). Per una settimana la città si satura di immagini in movimento (più di 100 i film in proiezione) ed ospita giovani cineasti e maestri internazionali (John Giorno e Ben Gazzara, solo per citare alcuni tra gli ospiti). Per l’occasione le gallerie della città hanno reso il loro omaggio alla settima arte: il museo provinciale espone le fotografie di Abbas Kiarostami, rigorosi paesaggi mentali in b/n, con una natura sublime come protagonista assoluta. Una galleria privata, Idearte, ha scelto invece le coloratissime immagini dei divi del cinema che ammiccano seducenti dai manifesti strappati di Mimmo Rotella (Catanzaro, 1918). La fascinazione del cinema celebrata in due mostre lontanissime tra loro, nell’una il cinema d’autore, intimo e contemplativo, dai volti anonimi, di Kiarostami e nell’altra il pantheon mitologico e popolare del cinema americano di Rotella. Entrambe, però, in grado di stimolare l’immaginazione, la capacità d’inventare storie e personaggi, grazie ad una misteriosa sospensione, un senso della meraviglia, un’attitudine ‘cinematografica’ connaturata alle opere esposte.
Rotella, attraverso strappi, lacerazioni, sospensioni e sovrapposizioni di senso, mentre tortura i suoi idoli di celluloide sottolineandone la fragilità e la precarietà di esistenza, ne potenzia l’immagine, la fa emergere da un magma indistinto come un’epifania. Crea una dimensione magica che l’immagine convenzionale del manifesto integro poteva solo didascalicamente promettere. Rotella invita lo spettatore a completare la narrazione dove è sospesa, nascosta, strappata, confusa. Le labbra turgide da femme fatale, i muscoli guizzanti degli eroi, le urla scomposte, i visi contratti di gangster e spie talvolta sono sottolineati ed esaltati dagli strappi/fasci di luce, talaltra sono coperti, sottratti alla vista e per questo resi più misteriosi. Lo strappo finto-casuale porta poi alla luce lacerti di narrazione incongrui e dissonanti: un occhio che spia da una fessura slabbrata, una gamba che sensualmente emerge dal fondo-sipario, innescando ancora una volta la molla immaginativa. E poi ci sono le scritte lacunose, a volte indecifrabili o scollegate all’immagine tanto da dar vita a nessi spiritosi o sarcastici, come il malinconico volto di James Dean associato beffardamente al nome dello storico rivale Marlon Brando. Perché l’atteggiamento di Rotella, appassionato di cinema, nei confronti dei divi è quello ambivalente del fan, da un lato l’adorazione verso esseri distanti come divinità (e la reiterata immagine di Marilyn dimostra tutto il suo amore per l’attrice), dall’altro l’esigenza di umanizzarli, di scoprirne le debolezze, un po’ come gli autori classici che si prendevano gioco degli dei e delle loro passioni umane e bestiali. Lo strappo quindi come atto di deformazione che li renda meno perfetti e in alcuni casi persino ridicoli e come atto pulsionale, di desiderio di possesso del sex symbol/mito collettivo che tutti vorrebbero toccare.
Ma allo spettatore contemporaneo la visione di questa fantastica galleria di divi sul viale del tramonto sembrerà soprattutto un malinconico amarcord, memento mori di una civiltà proto-mediale in cui le immagini duravano ancora abbastanza da raggiungere la coscienza collettiva e trasformarsi in mito, seppur precario, e non si consumavano, evanescente insieme di pixel, in un battito di ciglia.
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barbara improta
mostra visitata il 10 dicembre 2005
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