“Questa è l’unica cosa che ci tiene attaccati alla vita: lo strato che sta dietro”. Così Anselm Kiefer parla del suo costruire le opere come stratificazioni, sovrapposizioni alchemiche di materie, fatti, idee, sensazioni. Anche nei quadri di Luca Giovagnoli (Rimini, 1963) il protagonista è lo sfondo, eseguito meticolosamente utilizzando tele di juta ricoperte da uno spesso strato di collante su cui l’artista stende i suoi acrilici mescolati a sabbia, polvere di marmo e terra. Dando corpo ad un impasto denso, granuloso, pulsante. Ma se la materia pittorica di cui si nutre l’ispirazione di Kiefer aspira a trasfondere la propria esperienza privata nell’epopea tragica della Storia, gli sfondi di Giovagnoli sono stratificazioni di memorie e sensazioni intime, che rimangono personali, private. Il colore, steso con spatolate larghe o piccoli colpi, sgocciolato o strappato per far emergere stralci di tappezzeria o vecchie carte da regalo, non è che la traduzione emotiva di un ricordo, di un’impressione suscitata da un’immagine, da una storia sedimentata nella memoria. Nella serie esposta in questa mostra, dedicata alle spiagge riminesi, il rosso esplode virando negli aranci e violetti di tramonti infuocati, l’azzurro e l’ocra dorato si spengono nei blu profondi delle notti d’agosto. E su questi sfondi stratificati e scrostati come muretti di lungomare erosi dalla salsedine delle mareggiate, Giovagnoli graffia disegni infantili, riaffiorati in superficie dallo sfondo/magma indistinto del passato: gli svogliati ghirigori scarabocchiati sui quaderni sognando le vacanze, le barchette tra le onde, le bandierine colorate, fantastici edifici, forse giostre rotanti sul lungomare, forse esotici alberghi sulla spiaggia. Ricordi personali ma anche forme ricorrenti nell’immaginario collettivo nazionale, connesse alla nostra idea nostalgica della prima vacanza al mare da tipica famiglia italiana. Perché Giovagnoli è un ‘provinciale’ in quel suo tratteggiare sugli strati colorati il mondo piccolo-borghese e i suoi simboli, con la malinconia, l’ironia e il lirismo fiabesco del suo più famoso conterraneo, Federico Fellini.
E come Fellini, Giovagnoli si confessa in profonda complicità con gli ambienti frequentati e le esperienze vissute che lo spingono a narrare sulla tela le sue favole deformate dal ricordo o dalla fantasia: così si materializzano come lampi di luce, macchie di colore delle strane figurette evanescenti, apparizioni improvvise che affiorano per ricordare il destino cui sono fissate per sempre, come personaggi intrappolati in un ruolo.
I titoli delle opere, infatti, raccontano di attese lunghe ed inutili (Era lì ad aspettarmi, Lei era rimasta lì, Aspettarono per ore), di appuntamenti notturni (Gioco di stelle, Una sera scende dolce, Danza di stelle), di amori estivi e inutili promesse (Non ti lascerò più), di abbandoni di fine stagione (Sola di notte, Di guardia) dando allo spettatore il pretesto per fantasticare sul segreto di quei fantasmi che ci guardano muti, come se volessero invitarci a rifugiarci nei favolosi sfondi dietro i quali presto scompariranno, esseri asociali, instabili, in attesa che esprimono quella malinconia profonda che Fortini riscontrava nella poetica felliniana, e cioè ” la solitudine-comunicazione che oggi si dà nelle pieghe della storia”.
barbara improta
mostra visitata il 15 luglio 2006
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