Categorie: Architettura

architettura | Architetture viventi

di - 7 Marzo 2007

A molti il nome Kas Oosterhuis risulterà oscuro. Può quasi sembrare uscito dalla saga di Harry Potter. Se però doveste ignorare le definizioni di Swarm e Non Standard Architecture, e i relativi scenari che, con altri, questo signore dall’aria un po’ naif va sviluppando da anni, (senza dimenticare Beauchè e Cache, padri di Objectile) forse vi siete persi qualcosa non tanto del prolifico Kas, quanto di un dibattito che interessa un bel po’ di teste. Tra urban planners, architetti, artisti, critici e sociologi. La domanda è “cosa deciderà la forma delle nostre architetture?”, “come ci muoveremo attraverso di esse?”, “saranno le strutture stesse a muoversi con noi, utenti oltre che decisori di un sistema labile che chiameremo città?”. E altri quesiti ad alto tasso critico. O di ansia, a seconda dei gusti.
La lezione londinese tenutasi lo scorso 25 gennaio all’Architectural Association ha consentito di fare il punto del credo oosterhuisiano, e dell’ammirevole tenacia con cui il nostro procede coerentemente per sviluppi teorici di un unico asserto di base. Se gli uomini comunicano tra loro, tanto più comunicano con le architetture di cui fruiscono, e queste sono destinate ad interagire come recettori e trasmettitori, direttamente tra loro e “in tempo reale”.

“Nel 2003 con l’installazione Muscle presso il Centre Pompidou”
, dice Oosterhuis “il concetto di adattamento real time della struttura al pubblico venne realizzato proponendo un oggetto in cui sensori applicati ad hoc consentivano delle risposte immediate ai movimenti dei fruitori, ovvero delle variazioni di assetto indotte.
La comunicazione stabilisce, come in tutti i sistemi semiotici, una variabile aleatoria molto elevata. Il cuore della discussione oggi quindi è: alla scala urbana si può reputare plausibile un sistema composto da edifici ‘variabili’ e in movimento? Lo scenario cinematico-relazionale può sostanziarsi fisicamente o ha puro valore “iconico”e provocatorio? La risposta è si. Si può pensare ad un’architettura-installazione in cui non siamo solo noi progettisti, ma anche i nostri clienti con i loro comportamenti, in un sistema che chiameremmo di democrazia diretta.”


E prosegue: “Questo non vorrà dire copiare i comportamenti delle specie naturali, ma inventare un’altra specie, costruita, che possa familiarizzare con le altre specie viventi per come le conosciamo, progettando degli edifici interattivi dove numerosi attuatori comunichino costantemente, facendo dimenticare la città intesa come sommatoria di strumenti statici e disegnandone una nuova, che chiameremo Installation City”.
Non verrà fuori da un film di fantascienza, ma il sospetto che l’enfatico Kas Oosterhuis desideri avere una bacchetta magica per fare ciò che dice rimane forte. “L’edificio diviene uno strumento, esso diviene l’installazione”, afferma. E viene il dubbio che le dichiarazioni, prese superficialmente, possano avallare il mito romantico dell’architetto artista, soprattutto se si pensa al progetto di E.motive House.
Ma Onl ha progettato anche Hessing Cockpit, e di li diviene chiaro che Swarm City non è un’affermazione pubblicitaria, quanto uno scenario fisico che si sta lentamente autodeterminando. La certezza è che di architettura interattiva e “non catalogabile” dovremo riparlare meglio, davvero molto presto.

link correlati
www.oosterhuis.nl
www.quantumcity.com
www.objectile.org

pamela larocca

[exibart]


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