The Darling Exchange - Kengo Kuma - Vincenzo Bruno(ACP)
Il punto di partenza di tutti i progetti è il concetto di onomatopea. L’atto di creare o usare parole che includono suoni simili ai rumori ai quali si riferiscono. È da qui che Kengo Kuma parte per dare forma ad una sensazione fisica, esprimendo così la sua idea di architettura sostenibile, dove i materiali sono di recupero e le persone e le cose si ricongiungono.
«L’onomatopea non vede l’architettura come il soggetto delle operazioni di attori di un rango superiore (gli architetti), ma pone architettura ed esseri umani sullo stesso piano. Gli architetti non sono a capo dell’architettura, ma camminano attorno ad essa insieme ai fruitori. L’onomatopea è simile alla voce di un animale emessa a livello fisico ed esperienziale».
Legno, carta, metallo, sono i materiali più utilizzati da Kengo Kuma, uniti ad elementi presi dalla tradizione giapponese, tutto letto in una chiave contemporanea. Ecco che le superfici non coinvolgono solamente la vista, ma anche i sensi di olfatto e tatto. Il dialogo tra l’umano e il materiale è un tema sempre molto attuale ed interessante da analizzare. Ogni architetto instaura una personale relazione con il materiale scelto. «In questo dialogo non faccio quasi mai uso di un linguaggio influenzato dalla logica. E quando lo uso, è impossibile farmi capire. Ecco perchè uso sempre l’Onomatopea. La materia e il corpo parlano tra loro e risuonano quando usano questo linguaggio primitivo».
È proprio questo il punto chiave della sua originalità, che considera il mondo stesso un materiale e studia nel dettaglio ogni sito dei suoi progetti prima di fare schizzi, cercando di comprendere in maniera autentica i luoghi e di creare architetture che siano non solo in dialogo con l’ambiente, ma anche radicate nello spazio e nel tempo. Kuma ritiene che i materiali siano indissolubilmente legati al luogo. Gli edifici che progetta hanno spesso una leggerezza inaspettata e un tipo di movimento che lui stesso attribuisce al suo processo di concetto musicale. Evitando il più possibile l’uso del cemento, realizza opere che sembrano posarsi delicatamente sul terreno, talvolta sembrando evanescenti o addirittura ambigue.
Un percorso, quello della mostra, che si addentra tra alcuni dei suoi più famosi progetti per raccontare tutte le sfaccettature del suo lavoro, tattile, sensoriale e strutturale.
Dopo la Seconda guerra mondiale il materiale preferito dagli architetti era il cemento, elemento pratico ed economico per ricostruire velocemente ciò che era stato distrutto. Kuma aveva la sensazione che i materiali dell’architettura contemporanea comune rifiutassero in larga parte il passato. Ma è nel passato che si nascondono gli indizi per costruire un futuro migliore.
Frequentare l’Università di Tokyo negli anni Settanta per l’architetto ha significato confrontarsi con maestri dell’architettura del tempo come Kenzo Tange, rinomato per il suo ampio uso del cemento e scoprirsi, dunque, una specie di outsider. Invece di seguire le orme moderne di Tange o cercare ispirazione nella tradizione giapponese, ha trovato la propria libertà espressiva grazie al suo background internazionale.
Nel 1985-86 è Visiting Student presso la Columbia University a New York. Qui comincia a guardare alle soluzioni tradizionali antiche, comprendendo che spesso queste portavano con sé lo spirito e i pensieri del tempo. La riscoperta delle tradizioni giapponesi avvenne durante la condivisione della cerimonia del tè con alcuni suoi amici americani nello spazio che aveva ricreato come una vera teahouse. In quell’occasione notò quanto gli americani fossero attratti dal design giapponese.
Un mix di influenze che ha reso così speciale il lavoro di questo artista che ha realizzato oltre 400 tra edifici ed installazioni in tutto il mondo.
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