Archisatire. Una controstoria dell’architettura – Teatro dell’architettura Mendrisio. C. Enrico Cano
«Architetti: tutti idioti. Si dimenticano sempre delle scale nelle case». È sorprendente trovare tale perla di Flaubert nel solenne Teatro dell’architettura di Mendrisio, eppure è la frase che accoglie i visitatori di Archisatire. Una controstoria dell’architettura, una delle tre mostre promosse dall’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana e ospitate nel cilindro monumentale di Mario Botta fino al 29 marzo 2026.
Il direttore Riccardo Blumer parla di «Tre luoghi nel luogo», uniti per creare «Interazione tra varie condizioni dell’essere uomini nel contemporaneo con la specificità del mestiere di architettura». Una vocazione ambiziosa, come afferma Blumer stesso «provocatoria»; ma ugualmente ambiziose e provocatorie sono le mostre stesse, che si propongono di affrontare un tema come l’architettura trascinandolo fuori dal podio polveroso in cui tende a ritirarsi e proteggersi.
O, come dice Gabriele Neri, professore di storia dell’architettura al Politecnico di Torino e curatore di Archisatire, «Dalla torre d’avorio degli architetti»: la mostra vuole restituire «come la società ha guardato alla professione dell’architetto», il che spesso si rivela essere in modo poco lusinghiero. E Neri non lo nasconde, anzi: «vedremo delle case invivibili, degli architetti cialtroni, derisi, trattati male».
Archisatire non mostra infiniti modellini e piante e foto in bianco e nero di altezzosi uomini in completo, occhiali strambi e sigaro, ma un repertorio di vignette irriverenti, alcune ironiche (Adolf Loos che si ispira a un tombino per la sua Looshaus, un architetto del Bauhaus che si taglia le orecchie perché sono un ornamento superfluo, le maquette delle Case Milanesissime di Alvar Aaltissimo) e altre cattive (Gropius che sfila con le mani piene di quattrini e vestito da pontefice in un quartiere modernista già pieno di crepe, l’architetto del Ventennio Piacentini sbudellato come il Duce aveva sventrato Roma). Per Neri, però, la satira è necessaria: è «Un’occasione per gli architetti per ragionare su se stessi», poiché «proprio l’attenzione della satira verso questa professione dimostra l’importanza del suo ruolo pubblico e sociale».
Tanto è eloquente Archisatire, tanto è ermetica Reality Show, la mostra fotografica di Stefano Graziani al secondo piano, nella quale l’architettura non è bersaglio ma pretesto. «Fotografia e architettura sono due parole che costruiscono un’immagine a priori che a me interessa contrastare», afferma il fotografo.
Curata da Francesco Zanot, la mostra è una ricerca di autonomia del linguaggio fotografico nei confronti di tutti gli ambiti che la impiegano e soggiogano, in primis l’architettura. Laureato in architettura, Graziani ha collaborato con diversi studi, e alcuni di quei lavori compaiono qui, come lo scatto manifesto della mostra: una tavola con frutta e pappagalli, sullo sfondo i disegni dello Studio Mumbai. «Avevo chiesto una scimmia e dei pappagalli. La scimmia non si è potuta ottenere», racconta; aggiunge ermetico sul foglio di sala: «gli elementi che fanno parte della composizione potrebbero avere dei significati allegorici, ma non sono interessato a questo tipo di lettura».
Lo sguardo di Graziani è diretto, esplicito, eppure sfuggente, come solo la fotografia può essere. I suoi scatti sono volutamente ingarbugliati in una molteplicità di alfabeti iconografici che avvolgono come ragnatele qualsiasi immagine nel momento in cui la si immortala. Così una prospettiva centrale nello studentato di Giancarlo De Carlo richiama il neorealismo, una stanza d’hotel in disordine è una foto di interni e una natura morta, e la linea tra parete e piano su cui poggia un libro diventa un «Orizzonte», e l’immagine «Si trasforma in paesaggio». L’unica costante – come suggerisce il titolo – è la consapevolezza del mettere in scena, talvolta concettuale, spesso letterale, attraverso piani allestiti con oggetti (e animali).
A unire i due piani espositivi vi sono corde bianche che pendono lungo le balconate che danno sul vuoto centrale: servono ad azionare ruote campanarie in legno, progettate dagli studenti del primo anno. Stessa genesi hanno le “articolazioni mobili”, anch’esse interattive e in legno, ospitate nell’atrio. Insieme costituiscono la mostra Due Esercizi, a cura dell’Atelier orizzontale Blumer, che riporta l’attenzione sull’Accademia ma sempre in un’interpretazione atipica dell’architettura, restituendole «quel valore assolutamente tecnico e contemporaneamente comunitario e poetico che appartiene alla distinzione […] tra edilizia e architettura».
Le tre mostre del Teatro dell’architettura propongono così un approccio inedito e accessibile al tema centrale: rifiutano caparbiamente la retorica accademica e dimostrano che l’architettura è più stimolante se confrontata frontalmente o aggirata. Sarà interessante capire quale di questi sguardi risuonerà di più con voi.
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