Non ci si aspettava certo che il neodirettore Sam Keller imprimesse una svolta nella programmazione della Fondazione Beyeler. D’altronde -l’aveva dichiarato lo scorso gennaio- la sua
mission consiste nel “
garantire la continuità e sviluppare il museo”. Con la mostra dedicata all’
Action Painting, il primo capo della questione è senz’altro affrontato e passato in scioltezza, con lo stile che contraddistingue le rassegne allestite nell’edificio progettato da
Renzo Piano.
Anche il secondo corno, però, non è lasciato in sospeso in attesa dei prossimi appuntamenti. Sarà pure un’impressione stimolata dai recenti rivolgimenti, ma pare che il curatore Ulf Küster abbia colto l’occasione per “forzare” l’impianto della mostra, optando per alcune scelte che, fino a qualche mese fa, sarebbero state considerate addirittura “azzardate” per il rigore non soltanto filologico della Fondazione.
Tale
nouvelle vague si riscontra sin dall’inizio del percorso, dove a far bella mostra di sé in quanto “
pioniere” dell’Action Painting è la gestualità di
Jean Fautrier in opere quali
Les glaciers (1926) e
Tête d’otage (1944). Sia chiaro, non si tratta di una proposta critica rivoluzionaria, ma resta pur sempre una presa di posizione chiara e
partigiana, come raramente è avvenuto nella recente programmazione della Fondazione.
Si giunge comunque rapidamente al cuore della pittura d’azione propriamente detta. Con opere d’altissimo profilo e inevitabili disequilibri. Salta ad esempio agli occhi la presenza di lavori quasi esclusivamente su carta di
Hans Hartung, mentre ampio spazio è concesso all’
Informel esistenzialista
Wols; così come numericamente scarsa è la presenza di
Franz Kline (i cui prestiti delle opere, com’è noto, sono assai ardui da ottenere) e
de Kooning.
Il centro della scena è riservato in maniera eclatante a
Jackson Pollock, del quale sono presentati lavori altamente significativi. Fra gli altri, il gelosamente custodito
Number 5, 1948 – la courtesy è della
galleria Beyeler e gode del controllo di un addetto
ad hoc -, gli oblunghi formati di
Out of the Web: Number 7, 1949 e di
Number 7, 1950, fino agli oltre tre metri dell’
Horizontal Composition (1949 ca.). Opere che provengono rispettivamente dal Museo di Stato di Stuttgart, dal MoMA e dall’Israel Museum.
Lasciando al visitatore il piacere di percorrere la tappe consolidate dell’avventura dell’Action Painting, va notata la lunga coda dell’esposizione, dedicata agli “
eredi” talora inconsapevoli del “movimento”. L’offerta è ampia, con alcune proposte intriganti (
Eva Hesse,
Gerhard Hoehme) e altre storicamente e “poeticamente” più ardite, come l’
Arman del 1988 costituito da tubetti di colore montati su tavola, oppure l’omaggio a Pollock reso dalle pitto-sculture di
Lynda Benglis.
Alla coda segue un’appendice, al piano inferiore. Dove in extremis -lo desumiamo dal fatto che in catalogo non è presente- è stata allestita l’imponente
Grifola Frondosa di
John Armleder, a fianco di taluni video che narrano l’attività degli artisti in mostra. Dunque non poteva mancare l’agiografia iconografica di cui
Hans Namuth omaggia Pollock. Due intere sale le sono riservate: in primo luogo per esporre i celeberrimi scatti in bianco e nero, poi per mostrare il
dripper in azione, in una sorta di scrigno azionista progettato dagli architetti
Diller, Scofidio + Renfro.
Con un getto di colore, va da sé, il cerchio
non si chiude.