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fino al 14.I.2007 | Turner Prize 2006 | Londra, Tate Britain

di - 5 Dicembre 2006

Giunto ormai al suo ventiduesimo anno di vita, con vincitori del calibro di Richard Long, Damien Hirst e Martin Creed, il Turner Prize è diventato una piattaforma appetitosa a cui aspira ogni artista britannico under cinquanta, in vista di una carriera assicurata e di una somma di denaro considerevole (25.000 pound al vincitore e 5.000 ai partecipanti).
Come ogni anno le polemiche non mancano. Sebbene lontani dalle sentenze velenose che colorirono alcune edizioni precedenti (nel 2002 il ministro Howells lo definì “a cold, mechanical bullshit”), pubblico e stampa non hanno manifestato grande entusiasmo.
Il primo artista in mostra è Mark Titchner (1973, Luton), scelto per la sua personale da Arnolfini a Bristol. Un cartello all’entrata avverte: “le opere esposte potrebbero turbare le persone più sensibili”. Ergo Ergot: dodici dischi a spirale ruotano ritmicamente producendo giochi op art che rievocano gli esperimenti di cinema espressionista inizio secolo e le macchine che Duchamp creò negli anni ’20. Uno speaker sentenzia: “è cattivo, ed è pazzo”. Otto tavoli con altrettante scatole, circuiti muti collegati tra loro o radio in attesa di una probabile attivazione, recano slogan rubati ai manifesti dei sindacati di primo Novecento. Dirimpetto troneggia la scritta “Tiny Masters Of The World Come Out”. A uno sguardo ravvicinato ci si accorge che il materiale all’apparenza industriale di ciascun lavoro trad isce la sua vera natura: legno finemente cesellato. Interessato alle tensioni ideologiche che informano la nostra società, Titchner ne riassume così le contraddizioni, soffermandosi sul potere che i credo religiosi, politici e scientifici detengono. Peccato che il lavoro rispecchi poco gli ottimi propositi risultando piuttosto noioso.
Segue Rebecca Warren (1965, Londra), che riempie completamente lo spazio con le sue sculture sbrodolate. Riappropriandosi delle forme dei maestri, rilegge i lavori di Degas, Rodin e Picasso e ne esagera la fisicità in maniera quasi parodistica. L’interesse nutrito nei confronti della materia trova espressione nelle diverse varianti ottenute dalla stessa matrice che, una volta ricevuta la colata di bronzo, viene recuperata per essere rielaborata nuovamente in una scultura “di riciclo”. Pony, LouLou e Pauline sono alcune delle informi protagoniste. Alle pareti scatole di vetro raccolgono detriti trovati in giro per lo studio: un capello, un gomitolo, un pezzo di feltro (ecco un Beuys rivisto e corretto o una Rosemarie Trockel in punta di piedi?). La riflessione di “genere” si fa sentire, sebbene in toni più pacati e scherzosi.
Ma la vincitrice di questa edizione del ‘prize’ è l’unica non inglese. Tomma Abts (1967, Kiel), seconda donna in gara (a partire dall’edizione tutta maschile del 2001, si è fatta grande attenzione all’equilibrio dei partecipanti) e unica tra i quattro a far uso di pennello e tavolozza. Per quietare anche gli animi più retrivi alle novità, ecco una cinquantina di tele raffiguranti soggetti puramente astratti, di dimensioni identiche, dipinte ad olio e acrilico. Tra accademico esercizio di stile e revival di astrazione geometrica, certamente la nota più stonata in un concerto non esattamente melodioso.
Chiosa in bellezza Phil Collins (1970, Runcorn) l’unico forse a proporre un lavoro davvero originale. Su due schermi posti uno di fronte all’altro, intervistatore e intervistato si alternano come fosse un match di tennis. Per la Biennale di Istanbul 2005, Collins aveva chiesto ad alcuni concorrenti che avevano partecipato a reality-show rimanendone profondamente scottati, di farsi intervistare per raccontare come la televisione avesse rovinato la loro vita.

Una sorta di risarcimento per quel modo spesso scorretto con cui le reti televisive, sempre in cerca dell’audience (Channel 4, la rete reality per eccellenza sostiene il Prize dal 1991), trattano i partecipanti mettendoli in condizione di non riconoscersi più, una volta sullo schermo. Dal canto suo, Collins non fa altro che appropriarsi di queste storie trasformandole in surrogato mediatico-artistico e ammettendo una sorta di perversa attrazione per un format televisivo che ha accompagnato tutta la sua generazione. Inoltre l’artista ha creato appositamente per la mostra un vero e proprio ufficio, shady lane productions, posto nelle sale della Tate, dove un equipe di esperti e giornalisti lavora ogni giorno dalle 10 alle 18 raccogliendo testimonianze su come la videocamera abbia alterato il comportamento della gente.

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L’ufficio on line di Phil Collins

marta silvi
mostra visitata il 22 novembre 2006


Dal 3 ottobre al 14 gennaio 2007
Tate Britain, Millbank – London SW1P 4RG, Great Britain
tel +44 20 7887 8888 (dal lunedì al venerdì, 9.45/17.50)
orari: tutti i giorni, 10.00/17.40 – metro: Pimlico (Victoria Line) – biglietto: £5.00
Catalogo Turner Prize, a cura di Virginia Button, Paperback Edition
224 pp, 200 illustrations,ISBN 1854376187
£ 17.99 – www.tate.org.uk


[exibart]

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  • se quel tizio è pazzo...certamente al povero phil collins gli si staranno rimestando le budella....

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