La cena in casa di Simone, Paolo Veronese, 1556–60, Torino, Musei Reali di Torino, Galleria Sabauda
Non succede tanto spesso di poter conoscere e apprezzare la produzione di un artista sommo dell’arte rinascimentale attraverso oltre 100 sue opere. Se poi deve proprio accadere, non può che trattarsi di una delle destinazioni museali più prestigiose al mondo: il Museo Nacional del Prado. Con la mostra Paolo Veronese, un nome che è già un titolo e che non ha bisogno d’altro, a Madrid viene celebrata la fine di un lungo e approfondito progetto dedicato alle collezioni venete, originariamente punta di diamante delle raccolte reali spagnole e successivamente confluite in quelle del museo, iniziato con una mostra sui Bassano nel 2001, e continuato negli anni successivi con altre importanti esposizioni su Tiziano, Tintoretto, e Lorenzo Lotto. Paolo Veronese, curata da Miguel Falomir, direttore del Museo del Prado, e Enrico Maria dal Pozzolo, professore all’Università degli Studi di Verona, si presenta quindi non solo come una rassegna ambiziosa su artista tanto noto quanto studiato, ma anche come la degna conclusione di un imponente programma culturale.
Per non sbagliarsi – come si suol dire – il percorso di mostra si apre con un’opera capitale del maestro: La Pala Bevilacqua-Lazise, raffigurante la Vergine con il bambino assisa nell’alto della composizione e circondata da santi e donatori, anche nota come Pala di Castelvecchio per la sua collocazione nel museo veronese, aggettivo che è diventato il cognome/nome dell’artista stesso, il quale, ricordiamolo, si chiamava però Paolo Caliari. Il legame con la città di Verona resta un marchio imprescindibile nella biografia del Veronese, che si forma in un ambiente fortemente influenzato dalla pittura non solo di Tiziano, il colosso all’ombra del quale tutti gli artisti, sia veneziani sia forestieri, si trovano a lavorare durante il XVI secolo, ma anche Parmigianino, Raffaello e Giulio Romano. La prima sezione della mostra indaga proprio la produzione giovanile del pittore, vicino agli ambienti intellettuali di Verona, conoscitore degli artisti a lui contemporanei, e al contempo suggestionato dal forte legame con la Roma antica, che ricorreva nell’arte e nelle narrazioni locali come elemento identitario. Sin dai primi lavori emerge il tratto distintivo della pittura di Veronese, caratterizzata da un uso sofisticato del colore, da composizioni monumentali e dinamiche, da accostamenti cromatici audaci e allo stesso tempo perfettamente equilibrati, e dalla capacità di interpretare in maniera eccezionalmente colta anche i temi più tradizionali. Quest’ultimo aspetto emerge per esempio con ipnotica violenza nelle Tentazioni di Sant’Antonio, opera proveniente dal Musée des Beaux-Arts de Caen e che rappresenta il santo riverso a terra, con alle spalle una seducente fanciulla dagli abiti discinti, mentre viene travolto e schiacciato da un’inquietante figura satiresca che sta per sferrare quello che sembra un colpo mortale.
È davvero meraviglioso entrare poi nella seconda sezione della mostra, intitolata in maniera azzeccata «Maestoso teatro», per via di alcune opere nelle quali il Veronese sfoggia tutta la sua conoscenza delle nozioni di architettura e scenografia maturate a partire dalla riscoperta di Vitruvio fino ai più recenti contributi di Andrea Palladio e Sebastiano Serlio. La selezione è sapiente e ben orchestrata, specialmente grazie all’accostamento di tre opere iconiche e di grande formato, due del Veronese e una di Tintoretto: La disputa con i dottori nel Tempio, la Cena in casa di Simone, e la Lavanda dei piedi. Sulla scorta della tradizione squisitamente lagunare dei teleri, ossia grandi composizioni pittoriche su tela, le opere raccontano di una Venezia opulenta, sofisticata, rumorosa, e movimentata. Bisogna infatti andare oltre il semplice soggetto raffigurato, e capire quali siano stati i riferimenti a cui l’artista si è voluto ispirare. Nel caso di queste grandi composizioni capiamo che tanto Veronese quanto Tintoretto conoscono perfettamente le sontuose dimore progettate da Andrea Palladio per le aristocrazie venete – Palladio del quale viene tra l’altro esposta la copertina di una preziosa edizione cinquecentesca dei suoi Quattro Libri di Architettura – nonché le feste, i banchetti e i ricevimenti che si tenevano presso i ricchi e facoltosi oligarchi della Repubblica all’apice della sua gloria.
Di questa società così complessa, dove si incontrano mercanti, diplomatici, artisti, principi, alti prelati, e faccendieri il Veronese restituisce un affresco vivace e completo, come per esempio nella Cena in casa di Simone, dipinto iconico della Galleria Sabauda e dato in prestito al Prado in via del tutto eccezionale. La scenograficità viene resa dal Veronese adottando un punto di fuga prospettica ribassato, che accresce il protagonismo delle figure che vanno letteralmente in scena all’interno della composizione, a differenza del Tintoretto, che preferisce degli audaci accostamenti tonali resi attraverso accesi tocchi di luce e profonde prospettive laterali, che conferiscono al dipinto profondità e slancio. In queste opere di grande formato risalta tutto il talento di Veronese, che imprime sulla tela una moltitudine di personaggi, a ciascuno dei quali vengono conferiti un’espressione, una gestualità, e un abbigliamento unici. Ad accrescere la solennità delle composizioni è poi la scelta delle architetture che fanno da sfondo alle vicende narrate, vero omaggio allo sfarzo delle aristocrazie veneziane.
Delle sei sezioni di cui si compone la mostra, abbiamo apprezzato particolarmente quella dedicata alle rappresentazioni mitologiche e allegoriche, nelle quali il Veronese non solo dimostra di padroneggiare innumerevoli fonti visive e letterarie, ma è in grado di restituire questo immenso patrimonio attraverso nuove soluzioni artistiche. Paolo fu un vero maestro nel rappresentare il mito della prosperità di Venezia in un momento in cui cominciavano tuttavia ad apparire i primi segni del declino. Lo fece per esempio nel Palazzo Ducale della Serenissima, con un linguaggio immaginifico e solenne, in sintonia con i modelli classici, ma senza fastidiose rigidità. A questa produzione appartiene per esempio il divertente e delicato Ratto di Europa, nel quale la giovane fanciulla eponima del nostro continente, che nel mito viene rapita da Zeus sottoforma di Toro, nell’interpretazione del Caliari diventa una leggiadra eroina in partenza per la sua missione, vestita di sete preziose e incoronata con ghirlande di fiori da amorini e servitori, mentre un mansueto toro-rapitore le bacia delicatamente il piede per rassicurarla. Altra divinità prediletta dal Veronese è Venere, protagonista di diversi lavori che la vedono affiancata o dal figlioletto Cupido, o dall’amante Marte, oppure ancora da Adone.
Alla dea di Cipro fanno poi eco sul versante religioso le eroine bibliche e le martiri, come Giuditta o Santa Lucia, che vanno in scena nella sezione dedicata alla produzione matura dell’artista, che esplora i cruciali decenni compresi tra il 1560 e il 1588 (anno di morte del Veronese), e grazie a cui è possibile cogliere efficacemente l’evoluzione non solo del suo stile, ma anche i cambiamenti della temperie culturale italiana, gravata a partire dagli anni Settanta dai pesanti diktat tridentini. Simbolicamente, l’anno della morte di Tiziano, il 1576, segna infatti l’inizio dell’ultimo periodo di Paolo, che a 48 anni era uno degli artisti più famosi di Venezia. Aveva al suo attivo importanti commissioni pubbliche, godeva di grande stima da parte dell’oligarchia e, insieme a Jacopo Tintoretto e Jacopo Bassano, era alla guida di una scuola pittorica in continua evoluzione. Rispetto alla relativa omogeneità degli anni precedenti, la sua pittura si sposta verso composizioni più drammatiche e instabili, con forme più sfumate, una tavolozza più cupa e un uso della luce direzionale, spesso con connotazioni simboliche, che anticipa in alcuni aspetti lo sguardo degli artisti seicenteschi.
Haeredes Pauli, così erano chiamati i pittori della scuola inaugurata dal Veronese, e che nel solco della sua tavolozza hanno cercato di raccoglierne il testimone. L’ultima sezione di mostra esplora quindi la fortuna dell’artista, presentando il suo ascendente su importanti nomi della tradizione occidentale quali El Greco, Rubens, o Annibale Carracci. Tuttavia, di particolare curiosità, forse più per il pubblico esperto e per gli estimatori che non per altri, è la selezione di pochi dipinti realizzati da Benedetto Veronese, fratello di Paolo, e da Carletto, il figlio. Se nella distribuzione dei talenti Benedetto sembra non aver beneficiato della stessa fortuna del fratello maggiore, dall’altro lato, nel caso del figlio Carletto, ci rammarichiamo di aver perduto precocemente, all’età di appena 26 anni, quello che sarebbe potuto diventare un grande artista del tardo Cinquecento, come dimostrato dalla bella Sant’Agata in mostra, che sembra anticipare forme, allusioni, e luminosità del primo periodo barocco.
In conclusione, la mostra Paolo Veronese rappresenta una tappa quasi obbligata per ogni categoria di visitatori, dal momento che restituisce con ricchezza, dettaglio, e anche piena accessibilità la straordinaria parabola artistica di un genio pittorico universale, presentato attraverso una schiera di opere che solo il Prado poteva radunare tutte insieme. Paolo Veronese (1528-1588), sarà visitabile al Museo Nacional del Prado fino al prossimo 21 settembre 2025.
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