The Diriyah Biennale Foundation at the JAX District, Riyadh. © Diriyah Biennale Foundation.
Il 2026 si profila come un anno cruciale per la scena artistica internazionale: mentre Venezia si prepara al prossimo appuntamento lagunare, altre biennali — da Kochi a Diriyah — sembrano ridefinire il modo stesso di intendere la mostra periodica globale. Due esperienze diverse ma complementari, infatti, spostano l’asse del discorso verso il Global South.
La Kochi Biennale Foundation (KBF) ha da poco svelato la lista dei partecipanti alla sesta edizione della Kochi-Muziris Biennale, che si terrà dal 12 dicembre 2025 al 31 marzo 2026 nella grande città indiana. Curata dall’artista Nikhil Chopra con la collaborazione di HH Art Spaces, la Biennale presenterà quest’anno il lavoro di ben 66 artisti e collettivi provenienti da oltre 20 diversi Paesi, in un dialogo serrato con il tessuto urbano e sociale di Kochi. Il programma, dislocato in 22 diverse sedi, si sviluppa tra edifici coloniali e nuovi spazi recuperati sul lungomare.
Tra i nomi confermati figurano artisti internazionali quali Marina Abramović, Adrián Villar Rojas, LaToya Ruby Frazier, Otobong Nkanga e Ibrahim Mahama, insieme a protagonisti della scena indiana come Gieve Patel, Gulam Mohammed Sheikh, Raqs Media Collective, Anju Dodiya e Pushpamala N.
Nata nel 2012, la Kochi-Muziris Biennale costituisce il primo grande esperimento indiano di biennale d’arte contemporanea internazionale. Ideata da Bose Krishnamachari e Riyas Komu con il sostegno del governo del Kerala, la manifestazione si propone di sfruttare l’eredità storica del porto antico di Muziris come punto di incontro tra culture, rotte commerciali e dialoghi artistici precoloniali. Altro aspetto unico e interessante è che ogni edizione è stata curata da artisti piuttosto che da curatori tradizionali: una scelta che ha contribuito a mantenere un’identità sperimentale per la Biennale e che sembra essere sempre più diffusa nella grandi manifestazioni internazionali, come per il caso di Art Basel Qatar, guidata da Wael Shawky.
Il titolo di questa sesta edizione, For the Time Being, suggerisce un’attenzione al tempo come dimensione fluida, a ciò che non è stabile ma vive nel presente. Nel discorso curatoriale si legge la volontà di «resistere all’idea di biennale come spettacolo finito», proponendo al contrario un modello aperto e relazionale, in cui il pubblico, le comunità locali e la città stessa diventano attori attivi nella formazione dell’opera.
A pochi mesi di distanza, un altro grande appuntamento è atteso nel Golfo. La Diriyah Contemporary Art Biennale, che aprirà il 30 gennaio 2026, ha reso pubblica la lista degli oltre 70 artisti e collettivi internazionali che esporranno in questa istanza. Tra questi figurano anche Petrit Halilaj —recentemente insignito del Nasher Prize per la scultura—, Raven Chacon, Raqs Media Collective, Afra Al Dhaheri, Tishan Hsu, Rohini Devasher e M’barek Bouhchichi.
Nata nel 2020 per iniziativa del Ministero della Cultura saudita, la Diriyah Biennale Foundation rappresenta una delle piĂą ambiziose piattaforme culturali nate negli ultimi anni nel Golfo. La biennale si tiene nel JAX District, un ex complesso industriale alla periferia di Riyadh trasformato in un polo creativo, e prende il nome da Diriyah, sito patrimonio UNESCO e culla della dinastia Al Saud.
Curata da Nora Razian e Sabih Ahmed, l’edizione 2026 prende il titolo di In Interludes and Transitions ed esplorerà i concetti di mobilità , passaggio e interruzione. Le opere, molte delle quali nuove commissioni, saranno complementate da allestimenti firmati Formafantasma.
Diriyah si sta affermando come una piattaforma strategica nel Medio Oriente, capace di coniugare sperimentazione e produzione: è chiaro che ormai non si tratta più soltanto di “portare” l’arte contemporanea in Arabia Saudita, ma di generare un discorso autonomo, radicato nel territorio e aperto al dialogo internazionale.
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