Di spostamenti, momenti e incontri: una conversazione con Bruna Esposito

di - 30 Gennaio 2023

A margine della sua mostra al museo Madre di Napoli, “Con questi chiari di luna”, abbiamo incontrato l’artista Bruna Esposito, per una conversazione libera sulla sua ricerca, sui suoi spostamenti di luoghi e di sensi, sui suoi incontri. Curata da Benedetta Casini, la mostra è visitabile fino al 30 gennaio 2023 (qui la nostra recensione).

Bruna Esposito

GDC Ho attraversato le sale del MADRE con grande circospezione, chinandomi sulle opere, e anche sui loro titoli, attenta a non perdere qualche particolare che la luce fioca in cui è immersa la mostra, potesse nascondermi. Quando sono uscita, mi sono chiesta quale filo invisibile potesse collegare il pallido chiarore di luna che le avvolgeva – Con questi chiari di luna il titolo della mostra, un acme della poesia di cui si nutre il tuo vivere, e il suo dialogo con le arti – alla passione per i gabinetti pubblici – come tu stessa, una volta, l’hai definita – che caratterizza il tuo iter, sin dagli esordi negli Anni Ottanta.

Ernst Becker – straordinaria personalità di psicoanalista-antropologo, premio Pulitzer l’anno in cui concludeva la sua vita (1974) a soli 50 anni – definiva l’essere umano il primo vero paradosso sulla terra, proteso con le sue braccia, dalla vita in su, verso l’aria e il cielo e, dalla vita in giù, radicato nella terra e nelle proprie pulsioni fisiche e materiali. E certo la creazione, non può sottrarsi a varie acrobazie tra le due polarità, a meno di non amputare una delle sue componenti basilari.

BE «“Con questi chiari di luna” è un modo di dire che evoca un paesaggio soave e contemplativo, tuttavia è un paradosso, ossia esprime l’opposto, una sorta di sconsolata, seppure anche consolatoria, presa d’atto di problemi collettivi irrisolvibili. Tramite i paradossi ogni cosa s’inverte oppure si esagera. Se non ambedue. Dalla riflessione che hai citato – un essere umano per metà proteso verso il cielo e per metà piantato nella terra – mi viene in mente l’arcobaleno, simbolo biblico “dell‘alleanza” tra cielo e terra; incredibile, ma vero, l’arcobaleno è anche adottato la prima volta da Aldo Capitini nel 1961 alla prima marcia per la Pace Assisi-Siena; ed è adottato nel 1978, da Gilbert Baker, la prima volta a San Francisco, dal movimento per i diritti di genere; sembra paradossale, il medesimo vessillo è l’arcobaleno. Oggi vediamo cupissime nubi all’orizzonte, sappiamo che già lo furono in passato e prevedibili lo saranno in futuro, però davanti all’oscurità, quanto all’oscurantismo, si originano iridescenti riflessi di luce, balenano imprevedibili nel cielo, eppure mettono radici».

Bruna Esposito, Con questi chiari di luna, veduta della mostra, Museo Madre, Napoli, 2022, ph. Amedeo Benestante

GDC Appunto: con l’allusione all’arcobaleno tu sollevi il problema della pluralità dei segni linguistici, sia nel codice delle immagini che in quello delle parole.

Ed è esattamente lì, dentro le pieghe e nei risvolti del linguaggio, dove tu scavi con divagante leggerezza nell’antica saggezza dei proverbi di cui sono costellati i tuoi titoli, che ogni volta, riesci ad aggiungere un pizzico di nuovo stupore, per ritrovare il mistero di collegamenti e nessi esistenti nel nucleo originario, che l’uso comune ha invece cancellato e sepolto. Direi che in questo consiste la radice e l’essenza del tuo lavoro, una sorta di missione a pescare in profondità – quella bandiera bianca, Oltremare, sprofondata nella vastità marina, che apre la mostra – che si diletta a moltiplicare le desinenze, a invertire e a capovolgere la destinazione e i significati.

Qualcuno, mi pare, ti ha definito “eclettica”, ma fare quel percorso a serpentina che riesce a mettere in relazione più parti apparentemente distanti, non è eclettismo, ma vocazione a stabilire una continuità fra le sponde della diversità, avvertendo come coesistenti le diverse possibilità. Esattamente come è nella vita, che non si esprime mai secondo leggi antitetiche che si escludono a vicenda – o/o – ma con la ricchezza delle congiunzioni – e/e – che fanno posto a molteplici alternative.

Mi viene spontaneo chiederti: che cosa ricordi della tua infanzia?

BE «Grazie delle tue riflessioni che colgono il lavoro e me. Ricordo che alla scuola elementare la maestra ci assegnava un ‘tema’ e in cima alla pagina si doveva scrivere ‘Tema e svolgimento’. Era bellissimo applicarsi allo svolgimento.  Ancora oggi, mi adopero allo svolgimento, sbrogliando la matassa, cercando il capo dei fili conduttori.  Sono fili logici? Intuitivi? Misteri? Comunque esili, se non invisibili.  Ancora oggi, partecipando a una mostra a tema, colgo come propizia l’occasione per attraversare rotte imprevedibili il cui approdo è inaspettato e, spesso, stupisce per prima me stessa. Piuttosto che scalare una montagna, ancora oggi, mi è più incline navigare a vista».

GDC Ognuno dei momenti del tuo lavoro, mi pare vada letto, tenendo conto degli altri. Uso il termine momento invece di segmento, consapevolmente. La natura del tuo lavoro ha radici nel tempo, e un momento s’inscrive nello spazio, ma subito scivola anche via. Assume però il proprio significato, solo se lo si confronta con gli altri. Allora il viaggio non è più tuo, ma viene affidato a chi entra in contatto e prova a immedesimarsi nei diversi momenti, lasciandoli liberi come eventi, ma anche suscettibili di comporsi in un significato, come addensandosi e densificando. Mi sono interrogata spesso su quale formazione tu abbia ricevuto, perché la tua biografia si limita in genere a pochi cenni. Quando ho scoperto che avevi studiato architettura, la parte progettuale della tua ricerca mi è diventata improvvisamente, più intellegibile.  Altre tue esperienze, la danza, ad esempio, penso si debbano rintracciare tra le pieghe di un discorso ininterrotto, sempre in movimento tra le figure del tuo mondo. Vuoi parlarmene un poco?

BE «Nel 1979 mi sono diplomata al IV Liceo Artistico Statale di Roma. Nella mia classe, per fortuna, c’erano bravi insegnanti e artisti.  Verso di loro provo ancora gratitudine. In primis verso Carmengloria Morales, pittrice, che da allora ho eletto a mia maestra; inoltre Dante Curtacci insegnante di composizione architettonica, ispirata al Bauhaus. Il disegno, dall’ideazione alle minuzie del tratteggio, sino alle grandi prospettive a volo d’uccello, era per me centrale. Ero una ragazzina muta e studiosa; al contrario, nei collettivi e nelle assemblee degli studenti ero loquace e superba; dopo l’assassinio di Aldo Moro chiusi però con gli estremisti.

Un’amica frequentava la piccola scuola di danza di Rosanne Sofie Moretti, la cui coreografia era moderna seppure gli esercizi fossero alla sbarra, ma a piedi nudi. M’iscrissi, per curiosità. Ai saggi di danza di fine corso m’impegnai però con passione su costumi, scene e coreografie di mia invenzione, ispirati a Oskar Schlemmer. Li chiamavo “balletti astratti”. Furono esperienze di regia tra sudore ed euforia, di adrenalina da rito pubblico. Dopo il liceo continuavo a disegnare in uno studio professionale di architetti e andavo alla Facoltà di Architettura, dove a malapena si riusciva a percepire la voce dei professori dal fondo di aule super gremite. Mi smarrivo tra gli uffici senza capire come diamine iscrivermi. Voltai pagina. New York. Un sogno che covavo da anni. Lì incontrai altre forme di contact improvisation dance e di performance e così si aprì la mia scuola di vita, dal 1980».

Bruna Esposito, Con questi chiari di luna, veduta della mostra, Museo Madre, Napoli, 2022, ph. Amedeo Benestante

GDC Allora parliamo di New York, un’esperienza tanto determinante da trasformarti completamente, se tu l’hai definita, appunto, “la tua scuola di vita”.

BE «Espliciti, aperti e liberi, i corpi furono d’immediato impatto a New York. Percepivo tutti i corpi in divenire. Per mantenermi facevo mille lavoretti: cuoca, imbianchìno, baby sitter, dog sitter, pulivo gli atelier di alcuni pittori, colleghi di Carmengloria, come Lucio Pozzi, Michael Goldberg, Howard Smith.  Conobbi il capomastro di Donald Judd, così lavorai ad alcune sue immense sculture in legno e pulivo i tre piani della sua casa-studio e anche i loft della storica dell’arte Julia Ballerini e dell’architetto Lauretta Vinciarelli. Nello stesso tempo creavo e producevo le mie performance in spazi underground.

Conobbi lo scultore Richard van Buren e divenni cuoca nel suo 10th Avenue Bar, lì incontrai Batya Zamir, sua moglie, e scoprii che danzava. Quando la vidi volare in aria sulle sculture, realizzate per lei dal marito, danzando tra corde elastiche tese o appese nello spazio, mi si aprì un mondo. Seguii Batya nella sua air dance, un’osmosi tra acrobazie da scimmia e voli d’angelo. Poi seguii anche Sally Gross, la cui minimal dance, al contrario, era a terra, distesa, lentissima lumaca dalle scie orizzontali. Danzando con loro, ho imparato che il movimento non aveva vincoli, illustrativi o di forma, bensì era concretezza del corpo e tra i corpi: spinte, prese, rimbalzi, slanci, freni, pesi, contrappesi, cadute libere. Regina è sempre la forza di gravità.

Nel 1984 partecipai al bando dell’Indipendent Studio Program – Whitney Museum of American Art e lo superai. Un contesto prestigioso, dove artisti famosi presentavano le loro conferenze e visitavano i nostri atelier. Così incontrai di persona i miei miti: Vito Acconci, Ivonne Rainer, Julian Beck e Judith Malina. Lì conobbi e collaborai con la giovane pittrice tedesca, Baerbel Roothaar. In tutti quegli anni, assieme all’artista svizzera, mia coetanea, Penelope Wehrli, creavamo e producevamo piccoli e grandi happening che ebbero successo tra gli amici artisti. Della mia “scuola di vita” a New York, intenzionalmente ho menzionato coloro che considero miei maestri e due mie compagne di strada.  A tutti loro sarò sempre grata».

GDC Il tuo racconto chiarisce quanto la tua formazione ti assomigli. Non ha seguito binari prestabiliti, ma corrisponde a una ricerca dove, come anche oggi, si delinea la necessità di un legame con le esperienze più umili della vita, e nel contempo con quelle più alte. Spiritualmente e intellettualmente. Dopo New York sei andata a Berlino. Come è stata la tua avventura berlinese?

BE «Sono arrivata nel 1986 quando la città era ancora divisa dal muro. Berlino Ovest era un’oasi al centro della DDR, controllata dai russi dalla fine della seconda guerra mondiale; lungo i canali c’erano le torrette con i soldati in allerta e gli accessi a Berlino Est erano sotto rigido controllo militare. Era vietato portare musica, libri e perfino cibo. Non passava neanche uno spillo.

Forse per reazione o per sfida, volevo portare a Berlino Est, attraverso il famigerato Checkpoint Charlie, una pagnotta imbottita con una pietra di lastricato stradale, Proposi l’azione ad alcuni amici artisti. Tutti rifiutarono dicendomi che la pagnotta con la pietra era talmente paradossale che i militari, se l’avessero scovata, avrebbero reagito peggio che se avessero trovato un libro; solo Penelope accettò. Ci tremavano le gambe. Ci andò bene. Raggiunta Berlino Est lasciammo la pagnotta aperta, ai piedi di una statua sopra un ponte.  A quest’opera ho dato il titolo “Stuffed Brot cast”.

Un‘altra opera a cui tengo è “Canoa in volo”. Era un molo di legno, ma galleggiante, alla cui estremità un solo uomo pedalava una bicicletta, annessi timone ed elica in acqua; capovoga erano sei uomini che dettavano il ritmo in diverse lingue, con l’effetto di un dissonante coro militare; elevata sopra al molo era una silhouette in ferro di una canoa su cui io vogavo l’aria. L’opera è apparsa diverse volte lungo i canali sotto gli occhi dei passanti.

Per un’altra opera in scala urbana (la mia prima che abbia goduto di sponsorizzazione, dalla NGBK, in occasione di una mostra collettiva curata da Baerbel Roothaar) ho fatto lastricare un frammento di strada, i marciapiedi, e piantare un lampione e un alberello tutto all’interno di un cortile. In questo nuovo luogo, ho invitato un percussionista a fare un concerto assieme al mio battito cardiaco e al martellare del lastricatore, amplificati davanti al pubblico. L’opera aveva il titolo “Solo in 3 Movements” (Solo in 3 movimenti).

Nel 1987 a Berlino Ovest ebbi un vero “colpo di fulmine” per i vespasiani dell’ottocento, detti Pissoir, in ghisa e di forma ottagonale, che progettai e addirittura brevettai come girevoli caroselli. Questo folle progetto fu molto apprezzato dall’architetto Bernard Strecker che m’incoraggiò commissionandomi (con due borse di studio della IBA Berlin – un ente di restauro urbano) un progetto di gabinetti pubblici per uomini e donne. Ho dato il titolo “Zwei Oeffentlisches Biotoiletten” (Due gabinetti pubblici biologici) al progetto svolto in due anni di lavoro, studiando i gabinetti pubblici esistenti, progettandone due a compostaggio biologico e, infine, concludendo gli studi di fattibilità con un eco-ingegnere.  Nel 2003, grazie al curatore Dan Cameron, al direttore tecnico Emre Baykal e all’eccezionale equipe della Biennale di Instanbul, sono riuscita a costruirlo».

Bruna Esposito, Con questi chiari di luna, veduta della mostra, Museo Madre, Napoli, 2022, ph. Amedeo Benestante

GDC Senso della sfida, non solo nel senso di un’etica della provocazione, ma nella costruzione di grandi dispositivi il cui esito si rivela paradossale, sia nella forma che nel contenuto, quasi si trattasse di macchine inutili (machines célibataires) che contraddicono ogni idea di funzionalità o, andando anche oltre, di produrre un’inversione nel costume sociale, come nelle toilettes a compostaggio biologico.

C’è un filo conduttore anche nella tendenza alla creazione di forme dotate di movimento, o all’opposto, che lo contraddicono. Sui vecchi bagni pubblici berlinesi, eri in anticipo di circa trent’anni. Qualche anno fa la città ha iniziato, infatti, a valorizzarli, ne ha mutato la destinazione d’uso e, addirittura, organizza dei tour per turisti per farli visitare e fruire in altri modi. Non so se lo sapevi.

La tua generazione, è andata oltre un uso puramente estetico di Duchamp e ha portato alle estreme conseguenze atti e concezioni che avevano un valore soprattutto simbolico – benché, fossero già riusciti a dare una diversa interpretazione delle cose di questo mondo. Li avete calati nuovamente nella realtà, in qualche modo, per disporne in un maniera diversa. In ogni caso tu sei stata tra i primi a intraprendere la nuova direzione. Non so cosa ne pensi, ma io vedo un’analogia tra un’architettura che si preoccupa di non sprecare ciò che già c’è, e l’economia del riciclo e delle materie primarie, che assomiglia a quello che facevano i nostri nonni, e forse, uomini di età ben più antiche.

BE «Non sapevo che attualmente a Berlino si facessero tour turistici per vedere i Pissoir, ne sono davvero contenta! I gabinetti pubblici comunque sarebbero molto utili, specialmente in Italia, dove le città sono invase dai turisti.  L’ecologia sta avendo sempre più attenzione delle persone, dei media e delle istituzioni. Siamo in ritardo, ma speriamo bene».

GDC Dopo Berlino rientrasti a Roma?

BE «Sì, però a Roma si è aperto per me un periodo difficile. Non riuscivo più ad ambientarmi nella mia città natale. Ho sofferto la solitudine e lo sconforto. Dal buio sono uscita grazie a Carolyn Christof-Bakargiev che mi ha coinvolto in tanti progetti (tra i quali ti cito le mostre “Città Natura” e “La ville – le jardin – la memoire”) e grazie a Cesare Pietroiusti e il Gruppo Oreste (zero). Cesare era, ed è tuttora, una persona che apre le porte, per lui l’arte è proprio l’incontro e lo scambio equanime tra artisti. Il clima era di grande fibrillazione e anche euforia. In quel periodo Dora e Mario Pieroni iniziarono a invitarmi alle loro iniziative anche fuori città, per esempio nel Centro Civico per l’Arte Contemporanea di Serre di Rapolano, dove andavo a lavorare molto volentieri e dove ho conosciuto Mario Airò, Massimo Bartolini, Annie Ratti, Federico Fusi, Manfredu Shu e tanti altri artisti…in quel periodo finalmente ho ritrovato il mio focus sul lavoro in un clima di accoglienza».

GDC La tua buccia di cipolla, colta nel suo movimento avvolgente, nella fragilità delle sue dorature spettrali, collocata dentro le apposite teche, una delle quali dal fondo ricoperto di foglia d’oro, ha l’eleganza mobile di quelle foglie che vediamo in una sospensione che il vento, appena un momento dopo, può incaricarsi di smentire, portandole a tratti un po’ più lontano, e poi ancora più lontano.

Quell’Una cipolla, due cipolle, tre cipolle scandisce un ritmo, che può anche andare all’infinito. E l’infinito – il video della lettura silenziosa della lirica leopardiana nella lingua gestuale dei sordomuti – è infatti l’orizzonte in cui si situa la lenta navigazione di questa mostra, dove tutto è colto nell’attimo del suo divenire, su cui si posa ogni volta il tuo sguardo che sembra rivivere come un’apparizione, i flash della propria memoria in sospensione. I ventilatori collocati raso terra – Venti di rivolta o rivolta dei venti – dove poggiano quelle palline formate dai residui delle alghe marine sulla spiaggia – complicità e convivenza tra l’opera della natura e quella della tecnologia – aggiungono un rumore di fondo che è come il testo sonoro che non ci raggiunge dai testi poetici di Paola d’Agnese – con cui hai inteso accompagnare la mostra – e che vediamo disposti in fascicoli, illuminati da una piccola luce su un piedistallo, e alla lingua dei segni.

Insomma, nel fermo immagine delle due sedie, addobbate con sonagli muti che guardano lo sgabello con i sassi, nella profondità in cui nuotano le pupille vuote dei pesci, che le scope rivolte verso il soffitto ribadiscono, contraddicendo la gravità, nell’ape a tre ruote che intravvediamo nel cortile da una finestra – Paesaggio mediterraneo – coperta di fiori, come quelle dei venditori di piante che sostano nelle nostre città, e persino in Oro colato, dove la coperta isotermica usata per i migranti resta sospesa su un’amaca, tra la luce smagliante che si sprigiona dalla sua superficie e l’ombra nera che si disegna sul pavimento, tutto, in questa mostra, indica che le opere sono innanzitutto momenti di un processo volto a rimettersi in moto, come ogni cosa della vita e a ri-intrecciarsi con la nostra esperienza, per commentarla e interpretarla, di momento in momento, da lucidi testimoni della nostra storia, e non un tempo pietrificato in forma, che solleciti un sentimento tombale come avveniva in passato.

Ciò che ha importanza in una tradizione di pensiero, per continuare a dare i suoi frutti, non deve diventare un monumento, ma creare intorno a se partecipazione e comunione come in quella Perla a piombo, che all’inizio delle sale sembra voler misurare profondità ed esattezza della costruzione, ma riscattandola subito in lievità e bellezza. Cosa hai da dire al riguardo?

BE «Sono sempre stupita dalle interpretazioni. Le tue sono belle e per me lusinghiere. Sono contenta che tu abbia parlato di sospensione. Quando camminiamo e all’improvviso sentiamo il canto di un uccello, se ci fermiamo ad ascoltarlo avviene una sorta di sospensione. Che dire? Siamo sospesi tra passato e futuro. Siamo sospesi e di passaggio su questo pianeta. Forse dobbiamo arrenderci nell’ammettere che l’istante, quel breve canto, è irripetibile».

GDC Non credo che esauriremo mai il discorso sul tuo lavoro, frutto di una personalità che è altrettanto sfaccettata e complessa. Per questo chiedo a te cosa vorresti aggiungere a quanto abbiamo detto?

BE «Vorrei essere poeta per trovare le parole più consone e belle per concludere questo nostro dialogo. Devo però arrendermi a ciò che sono.  Ho avuto la fortuna del dono dell’osservare. La fortuna d’incontrare tanti buoni compagni di strada. La fortuna di provare piacere lavorando e condividendo con gli altri ciò che intravedo».

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