Corrispondenze e discrepanze, attriti e accostamenti, enigmi e svelamenti, la mostra alla Fondation Beyeler corre su binari multipli che attraversano — con l’adrenalina, l’eccitazione e la tensione di un viaggio sulle montagne russe — la storia dell’arte del XX secolo con qualche incursione nel XXI. Le tredici sculture di Duane Hanson, figure iperrealiste a grandezza naturale, dal chiaro messaggio sociale e politico che il tempo non sembra aver scalfito, hanno una forza dirompente.
Nei loro abbinamenti sono, da un lato, concilianti e dialoganti con alcuni capolavori della preziosa collezione della fondazione (esposte circa 100 opere di oltre 30 artisti), dall’altro sono disturbanti e inquietanti nella loro singolarità. Altrettanto sorprendenti sono le relazioni armoniose, a volte perturbanti, che si instaurano tra le opere storiche della collezione. Se il trittico In Memory of George Dyer (1971) di Francis Bacon si fa “straziante”, visto attraverso i bulbi di vetro sospesi di Félix González-Torres, la collocazione del monumentale gesso su lavagna di Tacita Dean dal titolo Cúmulo (2016) accanto alle sculture in vetro fuso, Opposites of White, di Roni Horn (2006-2007), ne amplifica la potenza formale, e la loro corrispondenza cromatica assume punte di rara intensità.
Nessuna accademica ricognizione cronologica, qui a guidarci in cortocircuiti inediti è la mappa delle emozioni. Non c’è stabilizzatore dell’umore che tenga: ci strappa un sorriso l’uomo sulla falciatrice di Hanson (1995) posizionato di fronte a una vetrata affacciata sul parco della fondazione — con alberi secolari e stagni di ninfee — e accanto al celebre olio su tre pannelli Le bassin aux nymphéas, ca. 1917-1920 di Claude Monet; sprofondiamo subitaneamente nella malinconia nera e nei meandri più nascosti della nostra anima di fronte al quadro Blue and Gray di Mark Rothko (1962) e l’anonima coppia di anziani a fianco (Old Couple on a Bench, 1994), seduti esausti su una panchina con lo sguardo perso nel vuoto.
Grazie alla presenza delle opere di Hanson, ad essere celebrati però non sono soltanto i tesori della collezione ma tutte quelle figure chiave della complessa macchina di un’istituzione, privata o pubblica che sia, e che lavorano dietro le quinte: operai, giardinieri, elettricisti, allestitori… Non a caso, nel foyer, ad apertura della mostra, ci troviamo di fronte a un imbianchino di Hanson con a fianco un olio su tela di Picasso a terra, appoggiato sul muro, ancora all’interno della cassa che lo custodisce.
Per i venticinque anni di attività della fondazione il curatore Raphaël Bouvier avrebbe potuto disporre nelle venti sale le opere più significative della collezione, in un, quasi scontato, percorso lineare, didascalico e cronologico. Si è spinto oltre, inscenando un allestimento, concettualmente, formalmente e spazialmente, più tortuosamente originale, di grande impatto e dall’alto potenziale di “esperienza trasformativa” per il pubblico. Perché, in questa mostra, sono anche i visitatori ad essere celebrati. Senza il loro sguardo quelle opere e quegli spazi che le ospitano, conservano ed espongono perderebbero la loro ragione d’esistere.
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