Focus curatori in 22 domande: intervista a Saverio Verini

di - 30 Ottobre 2025

Prosegue il nostro FOCUS curatori, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La nuova puntata della nostra rubrica ha per protagonista Saverio Verini.

Mattia Pajè, Un giorno tutto questo sarà tuo, 2019. Stampa su Textile Frontlit 180 gr e smalto su lino, 300 x 200 cm. Veduta della mostra alla Fondazione smART – polo per l’arte, Roma. Courtesy: l’artista. Foto: Francesco Basileo

Come ti definiresti?

«Un curatore. Sono laureato in storia dell’arte contemporanea, attualmente dirigo i Musei Civici di Spoleto, mi dedico costantemente alla scrittura critica e, in misura minore, all’insegnamento; detto questo, credo che la mia vocazione principale sia quella di curatore».

Dove sei nato e dove vivi?

«Sono nato a Città di Castello, la città di Alberto Burri. Dal 2023 vivo a Spoleto, muovendomi spesso tra l’Umbria e Roma».

Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?

«Sono sempre stato affascinato dal fermento della Roma degli anni Sessanta e Settanta. Al momento sto bene in Italia».

Quando hai capito che t’interessava l’arte?

«Credo che l’attrazione che hanno sempre esercitato su di me le immagini si sia manifestata nella passione viscerale per i fumetti Marvel, DC Comics e Bonelli, da bambino. Osservare quelle figure stimolava pensieri e interrogativi: perché uno stesso personaggio – l’Uomo Ragno, poniamo – disegnato negli anni Sessanta era così diverso dalla versione degli anni Novanta? Si trattava di riflessioni elementari, ma penso abbiano contribuito a formare in me una curiosità per la lettura delle immagini».

Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?

«Forse la prima volta che ho visitato lo studio di un artista, a Città di Castello. Avevamo entrambi vent’anni o poco più, io studiavo storia dell’arte e lui frequentava l’Accademia di Belle Arti; il suo atelier era una mansarda minuscola, ricordo ancora l’eccitazione di poter ascoltare dalla sua voce il modo in cui le opere erano state realizzate, le fonti d’ispirazione, cosa intendeva esprimere».

Roberto Fassone, Una di queste storie è vera (castello di Civitella Ranieri), 2018. Veduta della performance alla Civitella Ranieri Foundation, Umbertide. Foto: Marco Giugliarelli

Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?

«Potrei partire dai manuali su cui mi sono formato (De Vecchi-Cerchiari al liceo, Argan all’università), anche se le letture che più mi hanno acceso sono quelle legate all’estetica (penso a La trasfigurazione del banale di Danto o alla raccolta Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, a cura Di Giacomo e Zambianchi). Altri libri fondamentali in ordine sparso: La voce delle immagini di Frugoni, Passaggi di Krauss, Non si vede niente di Arasse. Di recente, ho apprezzato Curatori d’assalto di Balzer (per niente tenero con i curatori) e gli ultimi volumi di Falcinelli (Visus, Figure, Cromorama), incredibili per profondità, precisione e capacità divulgativa. Chiudo con una menzione d’onore: Mario Schifano. Una biografia di Ronchi».

Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?

«Vedo parecchi film, ascolto molta musica e leggo libri non soltanto in ambito artistico. Lo straniero di Camus, L’isola di Arturo di Morante, Il deserto dei Tartari di Buzzati, La strada di McCarthy sono i primi che mi vengono in mente. Alcuni racconti di Gogol’ mi hanno folgorato. Più d’un titolo di mostre che ho curato arriva da dischi, film, libri».

Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?

«Di getto direi Gli ambienti del Gruppo T. Le origini dell’arte interattiva (2005-2006) curata da Mariastella Margozzi e Lucilla Meloni alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. La possibilità dell’opera di muoversi, farsi ambiente, accogliere il visitatore mi ha segnato profondamente».

Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?

«La prima opera d’arte contemporanea vista con un certo grado di consapevolezza è stata la Venere degli stracci di Pistoletto, esposta nel 2001 nell’atrio del palazzo del Comune a Città di Castello».

Sublime cliché, 2025. Veduta della mostra al MACRO, Roma, con opere di Bianca Bondi, Nicole Wermers, Joel Blanco. Foto: Alberto Novelli

Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?

«Ho avuto l’enorme privilegio di condividere visite a studi, allestimenti, incontri pubblici e momenti più intimi con artisti straordinari. Poco più che ventenne, gli scambi con Marco Baldicchi, mio concittadino, sono stati particolarmente fecondi. Forse l’incontro più decisivo è stato con Paolo Icaro, conosciuto dieci anni fa: l’allestimento di Unending Incipit, sua mostra personale che ho curato a Città di Castello nel 2017 insieme a Davide Ferri, è stata una delle esperienze più formative. Roberto Fassone è stato – e continua a essere – un compagno di strada, così come Calixto Ramírez. Vedere da vicino all’opera Kerstin Brätsch per la sua mostra alla Fondazione Memmo mi ha fatto capire cosa siano il rigore e la disciplina assoluta».

Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?

«Ho avuto modo d’incontrare tanti curatori con cui ho stabilito rapporti di collaborazione e scambio (Ilaria Gianni, Marcello Smarrelli, Bartolomeo Pietromarchi, Marco Delogu, Davide Ferri, Cecilia Canziani, Francesco Stocchi, Valentina Tanni): affiancarli mi ha insegnato molto. Anni fa dedicai alla figura del curatore un ciclo d’incontri alla Fondazione smART di Roma, invitando personalità molto diverse tra loro (Pietro Gaglianò, a.titolo, Chiara Parisi, Ilaria Gianni, Christian Caliandro, Davide Ferri, Stefano Collicelli Cagol, Luca Lo Pinto, Cristiana Perrella, Simone Menegoi). Fondamentale è anche il dialogo con curatori della mia generazione come Simone Ciglia, Treti Galaxie, Gabriele Tosi, Rossella Farinotti, Maria Villa, Giuliana Benassi, Davide Daninos. Anche se non si può definire propriamente un curatore d’arte contemporanea, il pensiero di Michele Di Monte, curatore storico dell’arte a Palazzo Barberini, mi ha sempre arricchito e stimolato».

Franca (Adelaide Cioni e Fabio Giorgi Alberti), Tutto fuorché la luna, 2019. Veduta della performance a straperetana 2019 – La luna vicina, Pereto. Foto: Giorgio Benni

Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?

«Direi la mostra di Filippo Berta (2012), curata per Kilowatt Festival a Sensepolcro».

Qual è la tua definizione di curatore?

«Un complice esigente dell’artista, un facilitatore nella costruzione dei progetti, un mediatore tra l’opera e chi vi si pone di fronte».

Qual è la tua giornata tipo?

«Non ho una giornata tipo, però c’è una costante: al risveglio, per prima cosa, leggo le newsletter dei siti d’arte che arrivano nottetempo».

Hai dei riti particolari quando lavori?

«Porto sempre con me l’agenda – indispensabile – e un taccuino, anche se a volte annoto direttamente sul cellulare idee e spunti. In generale, amo molto stilare liste di cose da fare, che puntualmente crescono a dismisura».

C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«Le mostre sono frutto di preparazione e valutazioni attente, ma capita spesso che alcune idee prendano forma strada facendo. L’imprevisto genera stupore, che è qualcosa a cui tendere, sempre: in fondo il primo a stupirsi di una mostra dev’essere il curatore che l’ha pensata, è forse l’unico modo affinché anche il pubblico possa provare la stessa sensazione».

Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?

«Infinita infanzia, che ho curato a Palazzo Collicola a Spoleto nel 2024: una collettiva nata a partire da un piccolo saggio che ho scritto un paio d’anni fa, La stagione fatata. L’infanzia nell’arte contemporanea italiana».

Vedovamazzei, Early Works (Raffaello all’età di 7 anni) , 2021. Pastelli a olio su tela, 290 x 335 cm. Veduta della mostra Infinita infanzia, Palazzo Collicola, Spoleto, 2024. Foto: Giuliano Vaccai

A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?

«L’arte è presenza fissa su giornali, riviste online, social, podcast e si pubblicano e traducono molti cataloghi e libri dedicati all’arte. Trovo che, per vivacizzare il dibattito, si potrebbe forse puntare maggiormente su un filtro critico d’altri tempi, al quale rimango affezionato: la recensione. Credo che le recensioni – scritte, ma anche realizzate attraverso altri strumenti, come il video – abbiano il potere di spingere chi legge e ascolta a uscire di casa per vedere di persona una mostra o evitare di farlo, nel caso di una recensione particolarmente negativa. Senza pregiudizi o toni esacerbati, vorrei che le recensioni fossero più consapevoli di questa potenzialità».

Quali sono i tuoi riferimenti critici?

«Rimanendo in Italia, penso a Lara Conte, Stefano Chiodi, Riccardo Venturi, Elena Volpato, Alessandro Rabottini, Davide Ferri. Se potessi esprimere un desiderio e dire a chi mi piacerebbe avvicinarmi – come scrittura e originalità delle idee – penserei al Goffredo Parise “scrittore per l’arte”: il suo saggio su Luigi Ontani è per me insuperabile. In generale, sono molto attratto dagli scrittori che si cimentano con l’arte come Tiziano Scarpa ed Emanuele Trevi».

Paolo Icaro, C’era una volta, 2017. Dieci tavole di quercia, h 300 cm ca. ognuna, installazione dimensione ambiente. Veduta della mostra Unending Incipit, Pinacoteca Comunale, Città di Castello. Foto: Michele Sereni, Pelicula snc

La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?

«Sculture nella città, orchestrata da Giovanni Carandente nel 1962 a Spoleto durante il Festival dei Due Mondi, è stata epica, così come, in un contesto diverso, Il teatro delle mostre alla Galleria La Tartaruga, nel 1968. Forse la più bella in assoluto a cui abbia mai assistito di persona è stata Soulèvements, a cura di Georges Didi-Huberman, vista al Jeu de Paume di Parigi nel 2016».

Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?

«Andrebbe chiesto ad altri! Forse l’incapacità di lasciar andare le cose, di accettare il fatto che non si può avere il controllo su tutto quando si prepara una mostra».

Progetti in corso e prossimi?

«Al momento Palazzo Collicola ospita due mostre a mia cura (una personale di Kentridge e una selezione di opere dalla collezione De Donno di Foligno, co-curata insieme a Primo De Donno e Viaindustriae). E poi una visita a Spoleto merita sempre anche per la collezione permanente, con opere, tra gli altri, di Leoncillo, Calder, Pascali, Pepper, LeWitt, Accardi».

William Kentridge, veduta della mostra Pensieri fuggitivi, Palazzo Collicola, Spoleto, 2025. Courtesy: l’artista e Lia Rumma Gallery Milano/Napoli. Foto: Giuliano Vaccai

Chi è Saverio Verini

Saverio Verini è curatore di progetti espositivi, festival, cicli di incontri legati all’arte e alla cultura contemporanea. Ha collaborato con istituzioni quali La Galleria Nazionale, Istituto Italiano di Cultura di Parigi, Accademia Nazionale di San Luca, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, MACRO, Quadriennale di Roma, Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, American Academy in Rome, Fondazione Memmo, Fondazione Ermanno Casoli, Civitella Ranieri Foundation, la fiera ArtVerona. Attualmente è direttore dei Musei Civici di Spoleto.

Nel 2018 ha pubblicato per PostmediaBooks la monografia Roberto Fassone. Quasi tutti i racconti; è inoltre autore de La stagione fatata, edito da Castelvecchi nel 2022, saggio sul rapporto tra infanzia e arte contemporanea italiana.

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