Franco Guerzoni, L’immagine sottratta – Palazzo Reale

di - 7 Ottobre 2020

Il tempo è anche un silenziatore; la lontananza attutisce i rumori e si offre a noi come deposito di suggestioni e fantasie, private quindi degli umori, dei suoni e delle fisionomie dei protagonisti. È un teatro vuoto quello che si presenta ai nostri occhi, nelle migliore delle ipotesi una recita del dramma. Scacco, dunque, finale dell’immagine. Bianca: intorno al bianco.
Dopo la visita di un’esposizione non sempre capita di ritrovare nelle “parole d’artista” che si possono leggere all’ingresso una corrispondenza sostanziale fra quelle parole e la Poiesis del loro autore. Detto per inciso, quando poi chi quelle parole legge è un musicista, allora non ci si può non sentire toccati nel vivo su argomenti con i quali il musicista stesso si confronta quotidianamente. Tutto ciò è capitato al quarto piano del Museo del Novecento di Milano, nello spazio abitualmente destinato alle esposizioni temporanee. L’artista di cui parliamo è Franco Guerzoni, e la mostra, dal sottotitolo L’immagine sottratta, aperta il 9 settembre scorso, programmata dalla scorsa primavera, era attesa perché riapre la stagione espositiva del museo milanese dopo mesi di chiusura e perché Guerzoni, modenese, classe 1948, da tempo mancava da Milano. Martina Corgnati l’ha curata con sapienza e sensibilità, riuscendo a modulare la collocazione dei lavori sulle particolari caratteristiche dello spazio espositivo, e con ciò a conciliare due stagioni distanti del percorso artistico di Guerzoni. Sia nella luminosa sala d’ingresso che nella successiva, a destra entrando, convivono opere degli Anni Settanta con lavori dell’ultimo quindicennio, alcuni realizzati addirittura nei passati mesi di questo doloroso 2020, mentre nelle bacheche e ai separé che quelle bacheche sembrano proteggere si dispongono libri d’artista e progetti sperimentali.

Franco Guerzoni, L’immagine sottratta al Museo del Novecento

La parola che ricorre nell’incontro con l’opera di Franco Guerzoni è “stratificazione”. Una parola quasi magica, che gioca a rimpiattino fra due parametri diversi ma solo apparentemente distanti fra loro: uno, tempo, drammaticamente concettuale, l’altro, materia, altrettanto drammaticamente reale. Ecco allora che l’immagine sottratta in quanto “bianca intorno al bianco”, immersiva nella sua apparente godibilità, inganna l’occhio e con esso la sensibilità nel nascondere (“Intravedere” indica una delle sezioni della mostra) la realtà della lacerazione che proprio il tempo produce sugli oggetti/soggetti scelti da Guerzoni. Il rinnovarsi nel tempo di questa operazione di sottrazione avviene con la naturale coerenza della grande personalità: in Affreschi del ’72, dove l’immagine è reale, fotografica, ma relegata in uno spazio ridotto della bianca superficie; come, decenni dopo, in opere i cui titoli da soli dicono molto sul processo di prosciugamento iconico e cromatico portato avanti da Guerzoni: Archeologie senza restauto, Strappo d’affresco, Paesaggi in polvere. Proprio l’artista mi racconta come fin dagli esordi cercasse superfici uniformi su cui intervenire con foto, segni, colore, abrasioni, aggiunte di materiali concreti, e chiedesse a Luigi Ghirri, compagno di strada nelle comuni terre emiliane, di offrirgli immagini spoglie, vien da dire “glabre”, il più possibile prive di appigli oggettuali. Immagini che, Guerzoni stesso riconosce, qualunque fotografo, artista (come lo fu, e grande, Ghirri) e non, doveva trovare prive d’interesse, ma che per lui erano ideali per scandagliare un terreno già stratificato, o, meglio ancora, “da stratificare”.

Franco Guerzoni

Avevamo già incontrato il sodalizio Guerzoni-Ghirri nell’ottobre del 2014 a Palazzo Magnani di Reggio Emilia, nella mostra L’Orlando Furioso: incantamenti, passioni e follie. Era Dentro l’immagine (2004): un Mauriziano di Ghirri “ripassato” da Guerzoni con cristalli di salnitro. Opportunamente collocati nelle pareti/bacheche della sala, nella mostra milanese i “reperti” della comune esperienza permettono di apprezzare, nelle sue più autentiche ragioni d’essere, il profondo legame fra il maestro di Scandiano e quello di Modena. E nelle stesse vitree teche si va a ritrovare fra l’altro un gioco con simulacri musicali come Studio per flauto che, oltre alla sovrapposizione trompe-l’œil del materiale/materia (la rappresentazione fisica del flauto) presenta la rosseggiante copertina di un Concerto che colpisce (il musicista) per lo scoperto rimando alla grafica delle edizioni Ricordi: l’artista visivo come per incantesimo si trasforma in compositore di una musica che non c’è.
Nel contributo firmato per il catalogo Skira la curatrice Corgnati, ponendo l’accento sulla “necessità (inevitabile?) della memoria”, cita nomi di possibili pregressi storico-linguistici del lavoro di Guerzoni: Tapies, Campigli, Dubuffet (già suggerito da Fabrizio D’Amico), Manzoni. Tutto ben riconoscibile anche nelle opere in mostra. Basti dire dell’Achrome rammentato nelle increspature di Giardino Zen. A quei nomi potremmo forse aggiungere il Rotella dei dècollage o Twombly, in uno Strappo d’affresco (2016) dove accese crudescenze galleggiano su una disomogenea campitura albino-cilestrina.
Allo scritto di Corgnati si aggiunge in catalogo la testimonianza di Adele Ghirri che rievoca luoghi, come la casa di famiglia a Roncocesi, condivisi fra il padre e Guerzoni.
La mostra chiude il 14 febbraio 2021. Da dicembre sarà inserita nel percorso espositivo anche la proiezione di un video sull’opera di Franco Guerzoni realizzato per l’occasione da Eva Marisaldi ed Enrico Serotti.

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