Il ministro della Cultura e del Turismo dell’Unione, Gajendra Singh Shekhawat, intervenendo a una conferenza dedicata alla conservazione e alle arti tribali, ha annunciato la partecipazione dell’India alla prossima Biennale d’Arte di Venezia, in programma dal 9 maggio al 22 novembre 2026.
L’India è la nazione più popolosa del mondo, con circa 700 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti al proprio interno, ognuno con delle tradizioni proprie e delle espressioni artistiche differenti. Questa diversità, spesso tradottasi nella difficoltà di una rappresentazione del Paese “coerente” presso un padiglione nazionale, ha fatto sì che l’India partecipasse alla Biennale di Venezia poco e in modo assolutamente discontinuo. Il suo primo padiglione nazionale è stato infatti allestito nel 2011, mentre il secondo e ultimo nel 2019.
Il ministro ha affermato che a rappresentare il Paese sarà un gruppo di artisti emergenti provenienti dalle sue tribù indigene: espressioni effettivamente radicate nei territori, nelle pratiche artigianali, nei rituali, nella memoria orale. Shekhawat, intervenendo alla conferenza, ha affermato che il governo indiano sta investendo di recente proprio su questa diversità artistica, come patrimonio culturale da proteggere e come opportunità economica da esplorare.
Dietro questa svolta, si intravede anche un calcolo strategico: inserire l’India nel circuito globale dell’arte contemporanea non solo come mercato emergente, ma come voce autonoma capace di proporre modelli estetici e culturali alternativi. L’inaugurazione della sede del Kiran Nadar Museum of Art a Nuova Delhi prevista per il prossimo anno e annunciata proprio alla Biennale di Venezia del 2023, rappresenta solo l’esempio più eclatante della direzione che l’India sta intraprendendo in merito all’arte: si tratta infatti del museo e centro culturale più grande di tutto il Paese. La mancanza di un padiglione stabile a Venezia era, dunque, un’assenza con un peso sempre più significativa.
Benché non ci fosse un padiglione nazionale nel 2024, l’India non è stata del tutto assente all’ultima edizione della Biennale d’Arte, quella curata da Adriano Pedrosa e dal titolo Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Erano infatti esposti ben 12 artisti indiani, il numero più alto mai registrato, nella mostra principale: un segnale chiaro del crescente interesse per la produzione artistica del subcontinente e per la sua pluralità di linguaggi. Proprio quella edizione ha contribuito a ridefinire le coordinate del discorso sulla rappresentanza, spostando l’attenzione verso le identità indigene e decoloniali. È in quel solco che si inserisce ora la scelta indiana: non più ospiti del tema ma protagonisti di un padiglione nazionale.
La scelta di puntare sulle arti indigene si inserisce, pertanto, in un contesto di espansione e rinnovamento. Investire sulle arti tribali significa anche creare circuiti economici virtuosi per comunità spesso impoverite, trasformando il capitale culturale in risorsa economica e sviluppo sostenibile. La piattaforma di Venezia può sicuramente lanciare a livello internazionale non solo gli artisti, ma interi segmenti del mercato dell’arte indiana, attirando l’attenzione di curatori, galleristi e collezionisti su queste pratiche. Resta da capire se questa apertura saprà evitare le trappole della retorica identitaria e della strumentalizzazione che incombono come minaccia latente quando subentra l’occhio occidentale.
La Biennale di Venezia si conferma un banco di prova simbolico per le nazioni che vogliono ridefinire la propria immagine nel sistema dell’arte globale, che vogliono utilizzare l’arte come linguaggio di espressione di un messaggio ma anche della loro identità. L’India sceglie il prossimo anno di farlo dando voce a chi, fino ad ora, è rimasto ai margini. Se l’operazione venisse condotta con coerenza e sensibilità curatoriale, potrebbe segnare una svolta storica: non solo per la visibilità delle comunità tribali, ma per la stessa idea di rappresentanza nazionale all’interno delle esposizioni internazionali.
La Biennale 2026, che si preannuncia sempre più segnata dal tema dell’inclusione e del pluralismo culturale, potrebbe dunque diventare il palcoscenico di un nuovo modo di intendere l’arte indiana: non come monolite identitario, ma come intreccio di storie e linguaggi che dialogano fra loro e con il resto del mondo.
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