Andrea Fraser, I just don`t like eggs
Chi decide cosa ha valore nel mondo nel dell’arte? È questo, insieme ad altre spinose domande sul collezionismo, l’interrogativo che attraversa la prima retrospettiva in Italia di Andrea Fraser alla Fondazione Antonio Dalle Nogare a Bolzano. Artista, scrittrice e docente universitaria, Andrea Fraser (Billings, Montana 1965) è considerata tra le più radicali e influenti rappresentanti dell’Institutional Critique, ambito in cui è stata la prima ad operare con la performance. I just don’t like eggs! Andrea Fraser on collectors, collecting, collections: il titolo della mostra a Bolzano è già un programma – riprende infatti la frase detta da un collezionista d’arte in una performance dell’artista ed evoca «il linguaggio e la mentalità del collezionismo quale espressione di gusto, desiderio, distinzione …negazione, esclusività ed esercizio della scelta come una forma di potere. E se quell’uovo fossi io? potrebbe chiedersi un/un’artista» spiega Andrea Viliani, curatore del progetto espositivo con Vittoria Pavese.
I just don’t like eggs!, fino al 22 febbraio 2025, presenta progetti che attraversano l’intera ricerca di Andrea Fraser, dalla fine degli anni Ottanta alle produzioni più recenti e richiede un’immersione, con tempo e pazienza, nell’archivio di pensiero dell’artista e della sua pratica, che si esprime in ricerche, azioni performative e incursioni nei musei e collezioni, con ruoli diversi. E così nel video Museum Highlights: A Gallery Talk del1989 vediamo Fraser vestire i panni di una guida del Philadelphia Museum of art di nome Jane Castleton, che invece di spiegare ai visitatori le opere, illustra gerarchie e i sistemi sociali all’interno del museo. Ricerche tra archivi, inventari e documenti, interviste, lunghi studi sono gli strumenti che Fraser utilizza per mettere sistematicamente in luce dinamiche, ipocrisie (il)logiche, perbenismi legate al collezionare arte.
Ad esempio, A Project in Two Phases del 1994-95 è il risultato di una lunga analisi sulla EA-Generali Foundation a Vienna, molto attiva nel voler confrontare gli impiegati con l’arte contemporanea. Tra i prodotti dell’indagine di Fraser, un report mappa le posizioni di dirigenti e dipendenti rivelando un generale sentimento di ostilità da parte degli impiegati verso la decisione dell’azienda di collezionare arte contemporanea. Sfogliando i documenti, ci si imbatte poi sulle “linee guida” in cui l’azienda stabilisce con precisione il valore economico delle opere d’arte con cui arredare gli uffici, valore che cresce a seconda del grado degli impiegati (e il pensiero corre agli arredi negli uffici dei megadirettori galattici di fantozziana memoria).
Il collezionismo come status sociale; la psicologia del collezionista, tra desiderio di possesso e mancanza; i criteri escludenti in base ai quali i musei impongono sistemi valoriali su cosa sia o meno un’opera d’arte sono solo alcuni dei temi che Fraser presenta nelle sue opere con il rigore sistematico dell’anatomopatologa e la profondità emotiva della psicoterapeuta istituzionale. Opere che spesso suonano come frammenti di conversazioni di un certo mondo dell’arte, estratti non senza una certa affilata ironia: May I Help You? Aren’t they lovely?
La dedizione alla ricerca è costata a Fraser anche momenti di vero sconforto «Intorno al duemila, dopo tanti anni ero un po’ stanca, non riuscivo a pagare l’affitto e spendevo un sacco di tempo a visitare spazi che non ero nemmeno poi tanto interessata a conoscere… avevo iniziato a collaborare con le gallerie e mi sembrava di tradire me stessa, dopo una vita dedicata a studiare le ambiguità e le contraddizioni del mercato dell’arte» spiega Andrea Fraser ad exibart, introducendo così la sua opera più nota e radicale, Untitled, del 2003, in cui ha filmato un rapporto sessuale in una stanza del Royalton Hotel di New York tra lei e un collezionista privato. Il lavoro composto, tra l’altro, da un’edizione di cinque video, un audio e un comunicato stampa, fece scandalo, anche se «non si tratta semplicemente di un atto di prostituzione e mercificazione del corpo, ma, nel caso, di un’azione più simile alla pornografia perché l’obiettivo era vendere i video e guadagnarci, nella consapevolezza che l’arte è mercato» spiega Andrea Viliani. Fraser ama mettere nel gioco delle parti non solo sé stessa, ma anche il pubblico – a lasciarci più in imbarazzo non è infatti la vista del video, dall’estetica piuttosto scialba, ma la traccia audio dell’incontro, che ci costringe dentro il punto di vista, o meglio di ascolto, del collezionista, la cui voce è stata invece eliminata.
In opere successive, le ricerche di Fraser analizzano le interconnessioni tra politica e musei negli Stati Uniti – come nella corposa opera-pubblicazione 2016 in Museums, Money, and Politics – e tra mercato dell’arte e concentrazione della ricchezza in Index (Stack). Il lavoro si è poi allargato allo studio del rapporto tra costruzione di musei, costruzioni di prigioni e tassi di incarceramento, dimostrando come tra il 1970 e il 2010 il numero di carceri e musei sia triplicato, con un tasso di incarcerazione esploso al 700%. Una relazione inquietante, per un’arte elitaria, che non emancipa e non “salva” mai. Un cortocircuito, quello tra il privilegio e la sua negazione, che trova una sintesi più immediata nell’installazione sonora CCI Tehachapi at Kings Road: i suoni registrati all’interno del carcere di massima sicurezza a Tehachapi, nel sud della California, risuonano negli spazi limpidi del cortile della Fondazione Antonio Dalle Nogare, facendo sentire noi pubblico “con le nostre orecchie” un po’ come i personaggi futili e privilegiati di un film di Ruben Östlund.
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