Ritratto di Louise Nevelson, 1973 [Photo: Enrico Cattaneo. Courtesy Gió Marconi, Milano]
L’opera di Louise Nevelson, o «La Grande Dame degli assemblage», come la definì Grace
Glueck negli anni ‘70, viene omaggiata per la prima volta a Bologna negli spazi di Palazzo
Fava, fino al 20 luglio 2025.
La mostra è organizzata dall’Associazione Genesi, che si pone l’ambizioso obiettivo di diffondere arte contemporanea per sensibilizzare circa i diritti umani, fare luce sulle urgenze sociali, tematiche importanti che affliggono la stessa contemporaneità.
In questo contesto, è necessario sottolineare che il ruolo di Louise Nevelson, nell’ambito di
un’arte contemporanea allora dominata da uomini, è stato tutt’altro che marginale.
Nata a Perejaslav, vicino Kiev, con il nome di Leah Berliawsky, si trasferì negli Stati Uniti
giovanissima: il movimento, in quanto solo apparentemente le sue opere potrebbero suscitare senso di stasi, è stato il cardine di una produzione artistica sulla quale la curatrice, Ilaria Bernardi, ha deciso di concentrarsi «non puntando sulla ripetizione e sulla quantità, ma decidendo di lasciare spazio e respiro».
La mostra si articola seguendo un paradigma di ricerca dello stadio ultimo della
trasformazione della materia, Magnum Opus alchemica a cavallo tra nigredo (fase iniziale
associata al nero), albedo (verso il bianco) e passaggio finale all’oro e alle sue interpretazioni.
Una dimensione di dinamicità perpetua: il movimento per Nevelson fu tra paesi (si recò in
Messico per studiare l’arte precolombiana, da cui trasse ispirazione per la monumentalità e il senso del sacro, aspetti che approfondì anche con viaggi a Roma) tra materiali –
principalmente legno e oro – e, non ultimo, tra dimensioni. L’aldiquà e l’aldilà sono, come
sottolineato in più fasi dalla stessa curatrice, i due poli entro i quali le opere di Nevelson si
inseriscono proprio con l’intenzione di fungere da passaggio, come delle porte – al pari di
quella presente in mostra, un Senza Titolo del 1959-1960, piccola e quasi angusta, se
paragonata all’impatto visivo che le celebri sculture autoportanti per cui è spesso ricordata – che, se colte con gli strumenti giusti, possono condurre altrove.
Quali strumenti? Indubbiamente, l’autodeterminazione è il principale attraverso cui Nevelson ha costruito (assemblando esperienze e legno) e messo in pratica nella sua vita: presto resasi conto che la vita da moglie e da madre non le apparteneva, si dedicò a un’arte da lei stessa definita alchemica. Decise di mantenere il cognome del marito anche dopo il divorzio, non per legame affettivo, ma per una scelta deliberata di autoaffermazione e strategia identitaria. «Louise Nevelson sounded right. I would never have changed it. It had rhythm. It was good» dichiarò in conversazione con l’assistente e confidente Diana MacKown nel 1976, trasmettendo così l’idea del suo ruolo attivo nella costruzione di sé come figura artistica. Il nome – come il volto velato di ciglia finte e turbanti scultorei, come il nero intenso delle sue opere – divenne parte della sua opera stessa: marchio riconoscibile, maschera teatrale, immagine alchemica.
Nevelson fu dunque artefice della propria trasmutazione: seppe manipolare la materia ma
anche il linguaggio e il simbolo, forgiando un’identità che non era solo biografica, ma
iniziatica. Come in un laboratorio ermetico, trasformò il vissuto personale – da moglie e
madre riluttante a scultrice monumentale – in una forma artistica superiore. Il suo stesso
nome, mantenuto e modellato, partecipava a questa operazione alchemica: era sigillo, era
formula, era oro inciso nella materia viva del tempo.
In alchimia, l’inizio del processo di trasformazione consta di una fase di accumulo in cui tutto si dissolve in una massa nera. Allo stesso modo, in pittura, un certo tipo di nero può nascere dalla somma di tutti i colori. In entrambe le pratiche, il nero non rappresenta un’assenza, ma una totalità concentrata, punto di partenza per una possibile rinascita.
In questa fase primordiale della trasformazione, che l’alchimia chiama nigredo, la materia si
annera. Ma non si spegne. È un nero che pulsa, come quello dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenar, romanzo che fa di questa fase un’intera filosofia dell’esistenza, della disobbedienza e della ricerca.
E a ben vedere, l’azione creativa di Nevelson può ricordare la figura prometeica: come Prometeo rubò il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, lei ruba al sistema dominante – maschile, ordinato, logocentrico – legno, forme, resti, per plasmarli in nuovi universi possibili. L’atto creativo diventa allora anche un atto di sottrazione, di riappropriazione, rivolta.
Un nero piombo che anima, senza sopprimere, le solenni sculture autoportanti della Sala
Giasone, che accolgono chi visita – o viaggia – diffondendo quel respiro curatoriale che invita anche alla contemplazione degli affreschi cinquecenteschi.
La dignità di queste opere derivanti dal riutilizzo del legno, materiale che per Nevelson è
sempre stato sinonimo di vita e lavoro – in connessione con il lavoro del padre – è strabiliante e colpisce proprio grazie a quello stesso respiro voluto dalla curatrice. Dell’approccio curatoriale ripetitivo e quantitativo, abbiamo un’idea grazie alla presenza di una fotografia in una sala successiva, la stessa che ospita delle acqueforti inedite del 1953 e serigrafie del 1975, raramente mostrate al pubblico, dando così occasione di conoscere qualcosa in più di un’artista spesso paradossalmente riassunta nell’elogio alla grandezza delle sue sculture autoportanti.
Dirigendosi verso il bianco e la purificazione (albedo) in cui la materia si schiarisce, ci si
prepara alla rinascita, una fase che Nevelson sembra evocare nella luminosità rarefatta della Nevelson Chapel, spazio sacro e intimo costruito nel cuore frenetico di Manhattan, di cui è esposta una foto; si approda poi all’oro, simbolo della perfezione, della completezza e
dell’unione tra spirito e materia, già accennato con alcuni elementi in foglia oro che fanno
capolino nei collage e assemblage nella Sala Albani. Materiale prezioso per eccellenza e
simbolo legato al sole e alla purezza, trionferà poi come l’ultimo, o quasi, saluto della mostra, nella Sala Carracci.
All’avviso di chi scrive è un approccio differente a chiudere il cerchio per tornare alla natura
da cui tutto deriva e a cui, invero, tutto torna: ma è necessario intraprendere tale viaggio
alchemico per comprendere.
Assemblare legni scartati non è solo un gesto estetico, ma si fa azione prometeica: Nevelson ruba materia al ciclo del consumo e le restituisce una sacralità, un tempo, una voce. Così come Prometeo sfida gli dei per donare all’umanità il fuoco – figura associata al nero e alla trasformazione – Nevelson plasma il legno rigettato e lo trasfigura in soglia, in rito, in spirito. Il suo nero, come quello della nigredo, non è morte ma concentrazione originaria, carica di possibilità. Un gesto che si oppone all’estrattivismo cieco della modernità, che tratta la materia come oggetto da sfruttare e non come creatura viva, come accadeva nelle concezioni antiche dei metalli, nati e cresciuti nel grembo della Terra con un ritmo naturale, poi forzato dall’arte dell’uomo attraverso fuoco e separazione.
L’ultima soglia che varchiamo è, infine, la prima che abbiamo passato: torniamo nel mondo
fuori da Palazzo Fava, nella freneticità di un movimento spesso reso cieco dalle incombenze, talvolta costante nella sua inerzia, in cui l’autoaffermazione passa dalle unioni e dalle divisioni, dall’emancipazione quanto dal comprendere chi può essere affine. Legno, oro, nero carico di potenza e materia, nell’alchemica dimensione di un’artista da cui molto può ancora essere appreso.
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