Luca Gioacchino Di Bernardo, il segno che scompone lo zeitgeist e lo ricompone

di - 8 Dicembre 2025

«La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie», Hugo von Hofmannsthal, Il libro degli amici, 1922. Nei mesi che hanno preceduto l’apertura al pubblico della 18ma Quadriennale d’Arte di Roma, ho avuto occasione di seguire da vicino il lavoro di Luca Gioacchino Di Bernardo (Napoli, 1991), che vive e lavora nella sua città. Il ciclo di cinque tele presentato negli spazi del Palazzo delle Esposizioni, nella sezione curata da Francesco Bonami alla 18ma Quadriennale di Roma, segna una continuità con la traiettoria di ricerca che, negli ultimi anni, ha definito la poetica visiva dell’artista, confermandone la tensione verso un apparato visivo che organizza conoscenza e memoria attraverso il segno.

Dal punto di vista formale, il suo lavoro si esprime attraverso una linea meticolosa e severa, prossima al gesto incisorio, definendo una rappresentazione dominata, in genere, da un costante horror vacui e da una tensione analitica. Sebbene orientata da un ordine interno, la narrazione del ciclo si apre a una fruizione non lineare, in cui ogni tela agisce come frammento autonomo, fermo immagine dello zeitgeist, sospeso tra accumulo e dispersione.

Luca Gioacchino Di Bernardo, veduta della mostra, 18ma Quadriennale di Roma

L’attenzione al dettaglio e alla stratificazione simbolica riflette la complessità della produzione visuale contemporanea, interrogando i processi di costruzione e percezione del significato. Un possibile itinerario di lettura prende avvio da Pre-umano (cosa sto per fare?) (2025), in cui una figura dai tratti insieme animaleschi e antropomorfi occupa l’intera orizzontalità della tela. Il gesto con cui si copre il volto allude a un moto di vergogna primordiale.

Questi temi ritornano in Assenza di Dio (2025), in cui riecheggia l’espressione latina Homo homini lupus. Di Bernardo mette in forma una scena dai doppi connotati: da un lato, l’opera si configura come un’istantanea dello stato di natura hobbesiano, in cui figure vagamente umane incarnano la natura egoistica di un contesto pre-sociale privo di leggi. Dall’altro lato, emerge un richiamo alla tematica della vergogna, accennata nel lavoro precedente e rappresentata icasticamente nelle figure a sinistra che richiamano la Cacciata dei progenitori di Masaccio.

Luca Gioacchino Di Bernardo, veduta della mostra, 18ma Quadriennale di Roma

La vergogna negli umanoidi di Di Bernardo segnala una consapevolezza del corpo e dell’atto, un’inibizione rispetto al gesto, qui tradotto nella forma della violenza. Un luogo in cui la tecnica mostra la propria ambivalenza, tra potenza e inadeguatezza. L’opera non rappresenta semplicemente questa emozione ma la archivia e la ricompone, trasformandola in parte integrante del dispositivo visivo.

Segue il passaggio alla razionalizzazione del caos e alla sua elaborazione a mito fondativo della nazione, una sorta di filogenesi che in Dio è con noi (2025) si traduce in una propensione al “destino manifesto”. Si tratta di un’attitudine tipicamente occidentale, che però cela il timore reciproco su cui si fonda un fitto sistema di leggi e definisce una metafisica della violenza. Qui la composizione e il tratto si fanno più leggeri e i riferimenti ermetici si moltiplicano. Si concretizza il concetto dell’unico dio possibile: Homo homini deus est, «L’uomo è un dio per l’uomo, se conosce il proprio dovere».

In Il dono (la notte) (2025) si assiste a una ulteriore messa in forma del patto sociale. La figura materna offre il proprio “frutto” alle iene e invita al silenzio, mentre una figura mostruosa indefinita osserva la scena con un’inaspettata compassione. L’immagine, sospesa tra sacrificio e mutismo, sembra evocare il rovesciamento del mito originario della cura: la nascita come atto di consegna alla violenza, la maternità come rituale di potere. In filigrana emerge il culto della morte come fondamento simbolico dei grandi totalitarismi.

Infine, in Il ritorno (il giorno) (2025), quello che l’artista definisce «L’appeso più famoso della storia d’Italia» diventa pretesto per riflettere sul doppio rovesciamento. L’immagine richiama la figura dell’Appeso dei tarocchi, archetipo di passaggio e sospensione tra vita e morte. Il “ritorno” non si compie mai realmente. Ciò che appare come resurrezione è un inganno ottico, un movimento interno dell’immagine che, ribaltando il morto, ne simula la vitalità. La messa in scena del simulacro restituisce un dispositivo simbolico più che un riferimento storico diretto.

Luca Gioacchino Di Bernardo, veduta della mostra, 18ma Quadriennale di Roma

Il lavoro di Di Bernardo si configura come una riflessione sul dispositivo pittorico inteso come database esperienziale della storia: un luogo in cui le immagini vengono accumulate, distorte e riordinate secondo una logica affettiva, non cronologica. Iconografie, gesti e posture emergono come ectoplasmi da un tessuto mnemonico profondo; il suo è un fare archeologico che riporta in superficie stratificazioni nascoste. È un archivio che si ripiega su se stesso, generando una conoscenza non lineare, fatta di citazioni e slittamenti semantici. In questa prospettiva, la pratica dell’artista può rimandare al neomanierismo degli anni Ottanta. Tuttavia, persiste una forma di vagare individuale nella ricerca del senso che lo avvicina alle “allucinazioni” antimoderniste di William Blake, con il quale condivide una certa diffidenza per il “pittoresco”.

È inoltre possibile azzardare una rilettura alchemica dell’itinerario descritto. Le cornici — bianche, nere e infine bianche e nere — scandiscono le fasi della trasmutazione: dal bianco iniziale al nero della nigredo, momento di dissoluzione e “assenza di Dio”. In Il dono (la notte) persino il residuo organico diventa, metaforicamente, segno di passaggio. In Il giorno la dualità cromatica suggella la coniunctio oppositorum. Tuttavia, nulla si risolve, tutto resta sospeso; la pratica di Di Bernardo abita questo interstizio, dove la conoscenza è esperienza del limite.

Luca Gioacchino Di Bernardo, veduta della mostra, 18ma Quadriennale di Roma

Un punto centrale riguarda, a mio avviso, la funzione politica dell’opera, che non risiede nella decifrazione di un contenuto celato ma nel funzionamento del dispositivo stesso. La sua è una rappresentazione che smonta il mito e l’idea di progresso come accumulo, ponendo lo spettatore di fronte all’immagine come evento conoscitivo.

Ma, soprattutto, politico è il modo in cui l’immagine resiste alla sua piena leggibilità. L’ambiguità, l’allucinazione, la sospensione del senso diventano forme di opposizione al linguaggio mediatico dell’evidenza. In questo spazio di incertezza, di contraddizioni e dialettiche irrisolte, l’antinomia, vera protagonista della sua ricerca, riattiva la possibilità di un guardare autentico come esercizio insieme contemplativo e attivo, in cui lo sguardo si fa atto di conoscenza.

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