Marina Abramović, veduta della mostra, Albertina Museum, Vienna, 2025, ph. Rainer Iglar
In 50 anni di ricerca, Marina Abramovic ha sempre messo in primo piano la vulnerabilità del corpo in continuità con quella dello spirito, annunciandone al tempo stesso la capacità di resistenza oltre il limite pensabile. Una retrospettiva all’Albertina Modern di Vienna, visitabile fino all’1 marzo 2026, tira le somme di questo percorso che ha intrecciato arte e vita, dalle serie Rhythm degli anni Settanta alla lunga stagione condivisa con Ulay, dai Transitory Objects alle azioni partecipative fino a The Artist Is Present, ripercorrendo le molte esistenze di una pratica tesa tra gli estremi della ferita e del potere, del rischio e della trasformazione, della biografia e del mito. Ne parliamo con la curatrice, Bettina M. Busse.
Storica dell’arte e curatrice, ha realizzato mostre dedicate a importanti artisti moderni e contemporanei, tra cui Joseph Beuys, Anish Kapoor, Jannis Kounellis e Jenny Holzer. Al Kunstforum ha curato progetti espositivi di rilievo come The Cindy Sherman Effect (2020), Rebecca Horn (2021) e David Hockney – Insights (2022), oltre a iniziative interdisciplinari e mostre dedicate ad artisti emergenti. Nel 2003 ha co-curato il Padiglione Austriaco alla Biennale di Venezia e dirige il Bruno Gironcoli Museum. È autrice ed editor di numerose pubblicazioni.
«Come curatrice, definisco questa retrospettiva su Marina Abramović come un percorso che attraversa oltre cinquant’anni di ricerca artistica, mettendo in luce la coerenza e allo stesso tempo l’evoluzione di un’opera che ha trasformato il linguaggio della performance. L’esposizione è articolata in nuclei tematici che mostrano come l’artista abbia esplorato i limiti del corpo, il rapporto con il pubblico, l’energia della natura e la dimensione spirituale del tempo e della presenza», ci ha raccontato Busse.
«Il nostro intento è stato restituire sia la radicalità delle prime azioni degli anni Settanta sia la complessità dei lavori più recenti, che integrano video, installazione e forme di ritualità contemporanea. Abbiamo voluto evidenziare anche la dimensione collaborativa della sua pratica, presentando documentazioni storiche, opere fondamentali e rievocazioni che permettono di avvicinarsi all’esperienza diretta della performance. Questa retrospettiva non è solo una celebrazione del percorso di Marina Abramović, ma anche un invito a riflettere sul potere della presenza, sulla vulnerabilità, sulla resistenza e sulla capacità dell’arte di trasformare sia chi la crea sia chi la osserva».
Quando hai avuto il tuo primo contatto con Marina Abramović?
«Il primo incontro è avvenuto quando ero una studentessa molto giovane a Berlino. Per coincidenza mi trovai a cena con Marina Abramović, Rebecca Horn e Ursula Krinzinger. Ricordo che sul tavolo c’era un piccolo moschettino di legno, un dettaglio che mi rimase impresso mentre osservavo queste tre donne straordinarie. Il secondo contatto avvenne negli anni Novanta, quando feci uno stage presso la Galleria Krinzinger. Oggi lavoriamo insieme dal 2022».
Quando hai capito di voler diventare curatrice?
«Ho sempre avuto un forte interesse per l’arte contemporanea e ho iniziato con alcuni stage. Prima alla Sommerakademie di Salisburgo, poi a Vienna, dove ho collaborato all’organizzazione di diverse esposizioni. Dopo aver lavorato al mio primo catalogo, ho capito che volevo diventare curatrice. Successivamente ho iniziato a lavorare al MAK».
Per quanti anni hai lavorato a questa retrospettiva?
«Tre anni. Tre anni di lavoro intenso. Inizialmente la mostra era stata pensata per il Kunstforum Wien».
Sei felice che la mostra sia stata comunque realizzata all’Albertina Modern?
«È una domanda complessa. Da un lato non posso dire di essere felice, perché la chiusura del Kunstforum è stata una perdita importante. Dall’altro, l’allestimento all’Albertina Modern è eccellente: gli spazi sono perfetti e la mostra, in questo senso, ha trovato una collocazione ideale. Per il museo è stata una vera opportunità».
Uno dei lavori presenti è Imponderabilia, storica performance realizzata a Bologna nel 1977. Perché era importante includerla?
«Era fondamentale. Tra i quattro reenactment scelti per la retrospettiva, Imponderabilia è una delle performance più iconiche della collaborazione tra Marina Abramović e Ulay. Nell’azione, i due artisti diventavano letteralmente il passaggio d’accesso al museo, costringendo il visitatore a passare tra i loro corpi: un gesto che trasformava lo spazio pubblico in spazio relazionale.
È una performance cruciale anche perché appartiene a una fase di transizione nel loro rapporto artistico e personale».
La radicalità fisica è un elemento centrale nella sua opera, come si vede in lavori come Thomas Lips (1975) o Balkan Baroque (1997). Come la descriveresti?
«La radicalità è un tratto distintivo della sua arte. In Thomas Lips Abramović spinse il corpo oltre ogni limite, tanto che, durante la prima esecuzione alla Galleria Krinzinger, dopo due ore fu necessario interromperla. Nel 1990 eseguì la versione per il Guggenheim, durata sette ore. In Balkan Baroque, alla Biennale di Venezia del 1997, rimase per quattro giorni seduta su un mucchio di ossa, cantando canzoni della ex Jugoslavia: un’opera di enorme intensità fisica e emotiva.
Non credo che esista un altro artista che abbia spinto così lontano il corpo e la psiche. È unica nella sua radicalità».
Che pensi della mostra alla Galleria Krinzinger dedicata alle fotografie di Thomas Lips?
«Penso sia un progetto importante. Il fotografo Fritz Krinzinger, che è anche archeologo e docente universitario, ha documentato la performance in modo quasi scientifico, passo dopo passo. Ci sono anche immagini private, molto intime. È un materiale che nemmeno Marina conosceva del tutto. Mostra quanta ricchezza archivistica ci sia ancora da scoprire».
Possiamo dire che con The Artist is Present (MoMA, 2010) Marina Abramović è diventata una “superstar”?
«Assolutamente sì. Era già molto conosciuta nel mondo dell’arte, ma The Artist is Present l’ha portata a un pubblico globale. Klaus Biesenbach ebbe un’intuizione geniale: un grande spazio, un tavolo, due sedie e la presenza dell’artista. È stato un momento epocale».
C’è una performance che ti ha fatto piangere?
«La performance Luminosity, che vidi a Berlino nel 1997. È un lavoro di grande forza fisica e spirituale, intenso e doloroso. Mi ha profondamente colpita, ma non credo di aver mai pianto durante una performance».
Ursula Krinzinger è una figura chiave nella carriera di Abramović. Come vedi il rapporto tra queste due donne?
«Direi che per Marina ci sono due famiglie: quella biologica e quella dell’arte. Ursula appartiene alla seconda. Lavorare con Marina è sorprendente: nonostante la fama, è una persona concreta, ironica e molto professionale. È estremamente precisa e prende decisioni rapidamente».
Le opere più recenti di Abramović, legate a energia, cristalli e spiritualità, possono sembrare esoteriche?
«Direi di no. Possono avere un’apparenza esoterica, ma in realtà sono radicate in una riflessione profonda sulla natura come fonte di energia. In mostra ho cercato di evidenziare questo legame: non è misticismo, è una forma di ascolto del mondo».
Qui al museo è possibile sperimentare il metodo Abramović?
«Sì. Abbiamo incluso Counting the Rice, un esercizio in cui i visitatori siedono a un grande tavolo e separano chicchi di riso e lenticchie, scrivendo i risultati. Possono farlo per ore. Le performer coinvolte nei reenactment hanno seguito questo esercizio durante il workshop preparatorio, per sette ore consecutive».
Quali saranno i tuoi prossimi progetti?
«Non posso ancora rivelarlo, ma sto lavorando a due o tre progetti molto interessanti per Vienna».
Qual è il colore che associ alla vita di Marina Abramović?
«Il rosso scuro».
E il tuo?
«Anch’io amo quel colore. Grazie».
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