Alessio Barchitta, “Amareggïata”, 2025, dettaglio dell’installazione. Ph Francesca Migliorin, courtesy Amanei Salina
L’arte come strumento di indagine etica e risanamento. È questa la cifra che caratterizza il lavoro più recente di Alessio Barchitta (Barcellona Pozzo di Gotto, 1991), al quale è stato recentemente conferito il Premio Internazionale Giovan Battista Calapai e Theodora Van Mierlo Benedetti. Il riconoscimento valida un percorso di ricerca che, da tempo, indaga esperienze di fragilità, siano esse ecologiche, sociali, identitarie, proiettandolo in un progetto di arte pubblica: 3500cm2. Il dialogo tra la sua ultima installazione siciliana e questo nuovo impegno definisce una traiettoria artistica sempre più urgente e socialmente impegnata.
L’installazione più recente è Amareggïata (Aeolian Taste: quando il mare ci serve il conto) che, a cura di Elettra Bottazzi, ha occupato gli spazi di Amanei a Salina, da luglio fino al 5 settembre, epilogo della residenza artistica ‘U Mare Cunta. L’opera, realizzata nell’ambito del progetto Salina Isola Blu, incarna la poetica di Barchitta nel generare un potente cortocircuito tra estetica e contenuto.
L’artista ha creato una falsa aspettativa: dei volantini preannunciavano l’apertura di un vero ristorante ma i visitatori hanno trovato un tavolo imbandito di ceramiche, calchi precisi di ciò che abita – o minaccia – il mare. Dalle patelle ai ricci, dalle stelle marine alle suole di scarpe, da bottiglie a palline da tennis, dai tappi di bottiglia al tovagliolo decorato con conchiglie, ogni opera su quel tavolo era un’impronta di ciò che resta e di ciò che si consuma.
L’ironia sottile e l’uso di colori tenui e superfici lucide nascondono un problema enorme: l’inquinamento, la plastica, la pesca intensiva e il turismo mordi e fuggi. Barchitta ha usato l’inganno per veicolare un messaggio amaro: un menù fittizio, con titoli come Coquembouche di patelle o Strascico di gamberetti, affiancava una scheda scientifica sulle specie marine a rischio. L’opera era una domanda diretta: «Cosa significa sedersi a tavola oggi, su un’isola? Cosa scegliamo, quando scegliamo di non sapere?». L’intento era sensibilizzare i visitatori sul consumo alimentare e su un comportamento etico, soprattutto in un momento cruciale per l’isola, che sta lavorando per l’istituzione di un’Area Marina Protetta.
La vittoria del Premio Calapai proietta ora l’artista in una dimensione d’arte pubblica votata alla cura. Il progetto 3500cm2, curato da Lorenzo Benedetti, prevede la creazione di un poster 50×70 cm destinato a una diffusione mirata. Dal 2004 ridefinisce il concetto di spazio espositivo entrando in contesti non convenzionali. La vocazione specifica per la salute mentale arriva a seguito della collaborazione con l’A-Head Project di Angelo Azzurro Onlus, nata per lottare contro lo stigma della malattia mentale.
Barchitta realizzerà un manifesto che sarà installato in uno dei Centri di Salute Mentale – CSM italiani e distribuito gratuitamente a pazienti, visitatori e operatori della struttura, contribuendo a migliorare la qualità ambientale e relazionale dei contesti di cura, con un gesto di sostegno relazionale.
I due progetti, l’installazione Amareggïata e il futuro intervento nei Centri di Salute Mentale, pur con un profonde differenze di mezzi e contesti, dimostrano una coerenza etica. La riflessione artistica passerà dalla dimensione ambientale a quella individuale ma il focus resterà la cultura contemporanea incline all’abbandono? Lo abbiamo chiesto all’artista.
Il trauma dell’abbandono è spesso vissuto come esperienza intima e singolare. Lo hai già affrontato in opere come Kick me o Errante Eterotopico. Il tuo lavoro, esposto in un luogo di cura, sarà offerto alla collettività e alla sua fragilità. Qual è l’azione specifica che la tua opera mira a compiere in questo contesto? È un gesto di conforto, di riflessione, o forse un innesco per il dialogo?
«Non so ancora come declinerò la questione; per fortuna ho il tempo necessario da dedicarle prima della presentazione. Di certo non vuole essere un messaggio passivo: procederà per gradi, unendo i tre punti indicati, e offrirà uno spunto che ciascuno potrà reinterpretare secondo la propria sensibilità. Probabilmente il mio intervento vorrà somigliare più a un sussurro che a un urlo».
Non è la prima volta che ti confronti, sia pure in maniera trasversale con il tema della salute menatale. Penso al tuo recente laboratorio di ceramica ad Albissola Marina, CON AMORE, in cui hai trasformato le lettere di sfogo dei rifugiati in messaggi di speranza sull’argilla. Per 3500cm2 intendi veicolare anti-stigma diretto o tenterai di fornire al pubblico un vocabolario visivo (immagini, simboli) per affrontare, o semplicemente riconoscere, la propria esperienza interiore?
«Il mio messaggio non sarà assoluto, perchè la “verità” in contesti come questi si assottiglia e sfilaccia, non c’è una verità totalitaria nel complesso mondo della psicologia, offrirò al pubblico un poster più libero ad interpretazioni».
Come si relaziona la tua ricerca con il contesto in cui sarà collocato il manifesto? Vedi questo spazio come un nuovo orizzonte o una camera di risonanza per il tuo lavoro?
«Riconosco il profondo valore di questo progetto: si inserisce con delicatezza in un contesto al tempo stesso fragile e brusco. Ogni esperienza al di fuori della galleria rappresenta una cassa di risonanza e una fonte di nuovi stimoli, a patto di saper ascoltare i luoghi che la accolgono. Lo scambio è reciproco: spazio e opera si nutrono a vicenda. In definitiva, è al contempo un nuovo orizzonte e una camera di risonanza».
Infine, ritieni che questo tipo di intervento, che pone l’arte in dialogo diretto con contesti di vulnerabilità sociale, possa diventare una linea di ricerca prioritaria per il suo futuro artistico?
«Lo considero importante. Non so se in futuro diventerà una linea prioritaria, ma certamente terrò in considerazione opportunità simili: parlano a un pubblico autentico, senza fronzoli. Mi gratifica tanto quanto esporre in un museo sapere che una persona, attraversando un momento di fragilità, scelga di custodire un mio poster come monito».
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