Museion, TECHNO, 2021. Riccardo Benassi, Morestalgia, 2019. Photo: Luca Guadagnini
Queste alcune tra le parole d’ordine che ci appaiono oggi quando varchiamo Museion a Bolzano: Detroit, USA, la fine degli anni 80, gli anni 90, Berlino, Londra, l’Olanda, il Belgio, l’Ucraina, la periferia, il millenium, la tecnologia, i free party, i rave, il post-industriale, l’automazione, i big data, la libertà, la compressione, l’esaurimento, la cultura LGBTQ, la rivoluzione Black, la techno con la c e la tekno con la k, le 3 rivoluzioni techno, i 120 battiti al minuto, la cultura urbana, la rivolta annegata, il tempo libero pressurizzato, il naufragio del XX secolo – a proposito dov’è finita la zattera? -; i freelance, la produttività accelerata, la nostalgia, gli spazi dismessi, gli spazi riassegnati, l’annegamento della memoria, la dis-illusione politica; il club, il clubbismo, il buio, il corpo collettivo, il flusso, le onde scure.
E dunque cosa c’entrano le arti visuali e Museion a Bolzano con la musica techno e la sua tessitura di loops da sintetizzatori e patterns ritmici affidati a uno o più drums-machine al tempo di 4/4, a una velocità di media inferiore ai 140 bpm? Cosa c’entra Bolzano con il trattamento digitale dei suoni, la predominanza delle percussioni e la ripetizione ossessiva di scarne figure ritmiche – armoniche?
Siamo davanti ad una ricerca sulla crossmedialità, interdisciplinarietà, mescolanza, annegamento e presa di fiato? No. Siamo spettatori un po’ disturbati di salti mortali, reenactment, ricerche criptiche, loop riattivati, archivi dimenticati, proteste riadattate, post post post, compreso il post-covid che non è tanto post e che sembra aver annullato, fra le sue tante eredità ancora non comprese, anche quella dei rave? No.
Forse il nuovo direttore di Museion – Bart van der Heide – soffre la nostalgia di momenti e movimenti di cui ha respirato le più recenti trasformazioni? Neppure questo, perché
TECHNO, la mostra di Museion a cura del nuovo direttore con la collaborazione di Francesco Tenaglia, Florian Fischer e Frida Carazzato, è più efficacemente una riflessione e un’analisi critica, un gesto simbolico-interpretativo da rabdomante sensibile, un percorso etico – politico, forse anche un po’ funambolico, che oscilla tra tempo recente e tempo futuro”.
Techno registra infatti un approccio critico di taglio innovativo che propone le arti visive come sistema di raccolta dell’interpretato e del vissuto. In questa direzione “la mostra” è anche l’avvio del programma Techno Humanities (2021 – 2023) con il quale Bart van der Heide si è presentato alla direzione di Museion segnandone un cambio di paradigma.
E nel frattempo nella mia mente si richiamano due riferimenti: il libro Il fondamentalista riluttante (2007) di Mohsim Hamid e la nota dichiarazione di Emma Goldman: “Se non posso ballare non posso far parte della tua rivoluzione.
Ma in sintesi “Techno” è soprattutto una mostra che ha come consegna l’offerta di ascolti, domande e riflessioni che derivano appunto dall’osservazione del presente attraverso la lente inedita della musica techno; un fenomeno occidentale per geografia, ma non per geo-politica, che ha investito 30 e più anni del nostro accidentato e frastagliato cambiamento economico e sociale. Musica techno che, nel progetto espositivo, è restituita nella sua ambivalenza di avversaria e complice dei modi di vita postindustriali e della cultura urbana.
La mostra è quindi un progetto fluido che mette in scena un pensiero curatoriale
capace di essere “contemporaneamente” laterale e centrale e che invade, come non succedeva da anni, l’intero edificio Museion coinvolto in format espositivi diffusi a cui si sommano infiltrazioni, letture, workshop e collaborazioni sul piano territoriale e su quello on-line e off-line (un interessante programma collaterale come nella progettualità con Isabel Lewis o in A Possible Archive nel passage del museo).
“Techno” si focalizza su tre temi che stanno dentro il marchio e la pratica techno – libertà, compressione ed esaurimento – ed esplora in quale misura i fenomeni culturali associati alla techno siano intrecciati al modo in cui sperimentiamo i nostri più attuali codici identitari, senza nulla lasciare di intentato tra commercializzazione e rivolte. In pratica ciò che viene indagata è soprattutto l’eredità di un fenomeno, sino ad oggi vissuto più che studiato, che viene interpretata e svelata in mostra da un nutrito numero di artisti, molti dei quali giovani e non così conosciuti nei tour istituzionali a cui siamo più abituati. Due elementi (l’eredità intesa come confluenza- appropriazione-digestione e i lavori di artisti che ci obbligano a osservare nuove traiettorie) che aggiungono interesse alla prospettiva “a lente techno” del progetto di Barth Van der Heide. Elementi che obbligano il visitatore a perdersi e ritrovarsi nei 3 nuclei tematici che ne costituiscono l’ossatura critica ma anche riflessivo-poetica. Si aggiunga infine che la mostra offre anche uno sguardo privilegiato sulla scena techno in Alto Adige e a Bolzano, un sito – miniaturizzato ma esemplare – di sviluppo post-industriale. Ed in effetti, chi potrebbe o vorrebbe oggi ri-ascoltare l’anima passata della città, fatta di acciaio, alluminio e produzione energetica, rispetto anima all’attuale, terziaria e turistica, della “ridente” cittadina dolomitica?
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