Per contrastare la diffusione del virus, si è letto ieri sera nel comunicato stampa rilasciato dal Ministero dei Beni Culturali, c’è un hashtag.
#iorestoacasa: ovvero limitare la vita sociale per non aumentare i contagi.
Speriamo che nei prossimi giorni nasca anche un hashtag che possa risollevare l’economia del nostro Paese gettato nel panico. Al di là di una facile ironia e delle posizioni su slogan nazional-popolari che – per questioni “identitarie” i personaggi del mondo dello spettacolo devono assumere – in queste ore la questione complessa è la riflessione e il ri-calibramento del proprio quotidiano alla luce degli eventi.
Quel che è certo è che in alcuni casi la paura non si ferma e va di pari passo con l’aumentare di possibilità di essere contagiati: abbiamo letto tutti del treno dei fuggitivi da Milano verso il Sud, che non è stato sicuramente un tragitto “safe & clean”, abbiamo visto l’atteggiamento sprezzante del ragazzo che mostra il dito medio alla domanda del giornalista in stazione, roba che viene in mente Pasolini e lo “scritto corsaro” dedicato ai capelli lunghi e al loro linguaggio, e fa anche piuttosto pensare – e incazzare – che forse questi signori fuggiti dalla perfida Milano che prima ti spreme e adesso pure ti contagia non abbiano messo in pratica un gesto di coraggio, ma solamente l’appendice estremamente pavida che alcuni di noi tirano fuori nelle situazioni d’emergenza: la voglia di nascondersi, di non parlare. E infatti i fuggitivi del treno sono stati fotografati a Napoli come fossero delinquenti qualunque: incappucciati, avvolti da sciarpe, “mascherati” per non farsi riconoscere. Forse si erano già accorti che “zona rossa” non è sinonimo di avere i giorni contati.
Un’altra storia che la dice lunga su come le parole, in questi casi, debbano essere calibrate. In questo immenso marasma, dove non si comprende fino in fondo dove e come sono messi in atto controlli sanitari (ieri pomeriggio al sottoscritto, rientrando dagli Stati Uniti all’aeroporto della Malpensa solo una misurazione della febbre) bisognerebbe forse adottare un po’ di buon senso.
Sì, certo, stiamo scoprendo l’acqua calda, ma ancora una volta vorremmo ribadire che la Lombardia non è diventata Alcatraz e ancora i supermercati sono aperti e una cena si riesce a mettere insieme.
La psicosi collettiva che si è vissuta e si sta vivendo in queste ore piuttosto sembra fare il pari con un altro sentimento decisamente contemporaneo: quello della solitudine.
Tutti, sempre, eternamente connessi e tutti, sempre, eternamente più soli e vulnerabili al cospetto del flusso di immagini. Siamo tagliati fuori (da dove?) e allora via, torniamo a focolare. A casa sì, ma tutti insieme.
Questo temporaneo smettere di essere nel frullare degli eventi, dell’aperitivo tanto quanto per noi art-addicted che ci stiamo vedendo sfumare opening e viaggi stampa, non è un senso di pace ma quello di una sconfitta. E fa paura perché non siamo noi ad auto-escluderci dal flusso quotidiano ma è proprio il quotidiano che sfugge di mano.
Si è compiuto così, in maniera evidente a tutti, un nuovo passo nell’epoca della paura dell’entità astratta del terrore: se prima era l’idea della bomba, dell’attentato, dei foreing fighters, adesso la paura è legata all’immenso silenzio in cui sono avvolte le nostre case, le strade e le stazioni deserte.
“Stiamo perdendo vita”, ancora più rispetto alle ultime due settimane, è il pensiero che ci attanaglia e che non può essere confutato dalla realtà. Perché fuori tutto tace. Sarebbe utile appellarsi, ora, a quella bella parola che da tempo contraddistingue opere e i temi dell’arte: resilienza. Ma va da sé che, se mai sperimentata prima nella realtà fattuale, sarà ben difficile pensare di metterla in pratica ora, nella psicosi generale.
E allora tiriamo fuori un’altra azione decisamente in voga: coltivare.
Questi giorni saranno quelli giusti, per voi stessi e per la coltivazione della vostra anima, del prendersi cura di sé. E tra qualche settimana potrete già aver dimenticato di nuovo tutto, nel segno degli eventi.
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