Che fare della Rotonda Paciotti, a Civitanova Marche, ora che Paciotti ci ha lasciato? La domanda giusta è: che fare della sua eredità culturale? Un interrogativo che obbliga un territorio a guardarsi dentro, a superare provincialismi e pregiudizi. Negli anni Novanta, l’avvenenza di Cesare Paciotti divenne un fenomeno di culto mondiale. La sua scarpa era indossata da celebrità e modelle che ne amplificavano l’immaginario. Campagne pubblicitarie, audaci e provocatorie, esaltavano un’estetica di lusso e di trasgressione, che sapeva testimoniare la vitalità di un decennio dominato dall’eccesso.
La Rotonda Paciotti, all’ingresso della città, ne è oggi il testimone più eloquente: un luogo in cui estetica e funzione si fondono in forma visibile. L’opera è un’installazione scultorea che reinterpreta il logo. Non ha il compito di decorare ma di incarnare un’identità: quella di una città e di un distretto che, da decenni, costruiscono il loro destino intorno alla calzatura.
Realizzata nei primi anni Duemila dal compianto architetto Giancarlo Tintori, la rotonda è più di una scultura urbana: è una soglia. È come se la geografia economica transitasse in geografia estetica. Il “fare scarpe” diventa “pensiero visibile”, un segno che testimonia la potenza simbolica della forma. Il marchio, scolpito nell’acciaio, diventa totem del moderno, simbolo collettivo di un territorio che ha costruito la propria storia sul gesto del “fare scarpe”.
L’economia si trasforma in geografia estetica, il lavoro in linguaggio, il design in mito. Appartiene al genere dell’Art Land: opere che non si limitano a occupare lo spazio ma lo generano. Qui la scultura non decora ma pensa; non rappresenta un eroe, ma un immaginario. È la memoria del desiderio, non del sacrificio: l’affermazione della forma come destino.
Il traffico che la circonda diventa parte dell’opera: le auto danzano intorno al simbolo, in una liturgia del consumo e dell’identità. La rotonda è un dramma visivo, un teatro urbano dove la modernità celebra se stessa. Il marchio si fa epifania architettonica, altare laico del desiderio. Nelle società secolarizzate, il sacro non scompare: si trasforma; là dove un tempo sorgevano templi, oggi si ergono marchi.
La Rotonda Paciotti è il tempio di questa nuova religione del visibile, non spiega ma irradia. Come un antico santuario, impone attenzione, quasi una genuflessione estetica. Paciotti, con questo gesto, ha involontariamente compiuto un atto filosofico: trasformare l’industria in linguaggio e il linguaggio in rito.
Ogni automobilista che entra nella rotonda viene risucchiato, anche solo per un istante, in questa spirale del desiderio estetico: non solo attraversa uno spazio, ma partecipa a un rito. In ciò, la rotonda funziona come una macchina desiderante: la circolarità del traffico diventa la danza del desiderio stesso, che non si ferma, non si consuma mai del tutto, ma si rinnova ciclicamente, come il lusso, come la moda.
Chi la attraversa partecipa a un rito contemporaneo non solo passa, ma si specchia, riconoscendosi nel proprio bisogno di splendore. Il metallo lucente è pelle del moderno, superficie sacra su cui la collettività proietta la propria fede nella forma. La scarpa, simbolo di contatto fra carne e mondo, diventa qui metafora dell’abitare estetico: il gesto umano di camminare trasformato in linguaggio visibile.
C’è un paradosso potente nella Rotonda Paciotti: ciò che nasce come segno commerciale, come emblema del lusso individuale, diventa simbolo pubblico, condiviso, comunitario. È insieme manifesto e rivelazione; non appartiene più al mercato ma alla comunità che in essa si riconosce. “Da logo a logos”, da segno commerciale a simbolo condiviso, rappresenta la fusione di arte, artigianato e pensiero. Non commemora il passato, ma fonda il presente. Ogni linea metallica taglia l’aria come sillaba del linguaggio del desiderio.
Crocevia di transiti, simbolo di circolarità e di eterno ritorno, l’opera vive del movimento che la circonda. Non si guarda stando fermi ma passando, girandole intorno: come una divinità che non tollera la staticità ma solo la danza. È il rito della mobilità contemporanea: automobilisti, viaggiatori, corpi in corsa partecipano a un rito estetico collettivo, inconsapevoli celebranti della nuova religione del visibile. La forma circolare diventa “mandala” del moderno, danza del consumo e della creazione.
Il marchio si fa filosofia della visibilità, estetica che pensa, materia che parla.
La modernità trova qui un suo paradigma: la filosofia che si manifesta nel quotidiano, nel centro del traffico, dove il pensiero incontra la vita. La cultura secolare ha spostato il sacro dai templi alle vetrine, dai santi ai designer, dalle icone religiose ai marchi: il bello è diventato ciò che un tempo era il divino. La Rotonda Paciotti è un Pantheon del desiderio contemporaneo: un tempio senza dio, ma colmo di luce; una chiesa senza religione, ma consacrata alla forma. È il teatro urbano dell’identità, la firma che diventa monumento, la moda che si fa mito. Qui il desiderio prende corpo, la luce si fa pensiero, e la forma, come un atto di fede, diventa sorte. La Rotonda Paciotti è il monumento (da “monere”, ricordare) di un destino e Civitanova che l’ospita deve farsene una ragione.
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