Categorie: Attualità

Riprenderci dal male: da Werner Hofmann a Paolo Canevari

di - 14 Aprile 2020

In giorni in cui il mondo dell’arte comincia a interrogarsi su cosa fare domani, cosa rivedere di quanto fatto ieri, come ricominciare, cosa salvare e cosa reimpostare, torna utile riflettere su quanto scritto dallo storico dell’arte viennese Werner Hofmann, il quale riassumendo il senso delle opere e delle teorie messe in atto dal movimento olandese De Stijl tra 1917 e 1931, così chiosava: “svalutazione programmatica del professionismo artistico, basata sulla certezza democratica che chiunque abbia il diritto a qualsiasi attività artistica”.

Quanto osservato da Hofmann (morto nel 2013), fondatore del MUMOK di Vienna e direttore dell’Hamburger Kunsthalle, docente negli Stati Uniti presso le Università di Berkeley e Cambridge, sembra più attuale che mai.

In questi giorni alcuni commentatori televisivi come Beppe Severgnini hanno sostenuto che a causa di questa crisi mondiale, non ci sarebbe più spazio per gli “improvvisati”, per i “dilettanti” e non si può più “bluffare in nessun campo”, che sia politico, professionale o altro.

Paolo Canevari US, 2009 video still, HD 1′ 42

Bello pensarlo, ma solo una pia illusione ovviamente: anche in tempi di crisi escono fuori improvvisati e dilettanti. E, poi, perché mai solo in queste situazioni tali persone non avrebbero motivo di essere, e non anche in tempi di “normalità”? Possibile che solo in momenti di crisi si rifletta con tanta determinazione su problemi che sono da sempre sul nostro tavolo? Possibile che solo crisi economiche ci facciano riflettere e non anche quelle culturali, sempre presenti e che rispetto alle prime sono gratis, nel senso che le possiamo affrontare dovunque e comunque, senza dover prima subire una catastrofe finanziaria e sociale?

Ecco perché quanto scritto da Hofmann (era il 1987 quando fu pubblicato il suo fondamentale libro I Fondamenti dell’arte moderna) sembra ancora più attuale oggi, mettendo in dubbio il professionismo artistico e la certezza democratica che tutti abbiano diritto a fare arte. Sono questi i due presupposti che aprono la strada in campo artistico al dilettantismo nel peggiore dei casi, a uno specialismo professionistico nel migliore. Dilettantismo è quando tutti pensano di dover essere considerati o poter avere voce in capitolo (curatori, artisti, galleristi, collezionisti), senza bisogno cioè di dire qualcosa che possa aver senso, l’importante è esserci, tanto più che nel dominio contemporaneo dell’arte non si danno patenti per operare come avviene per architetti, ingegneri e avvocati, nè esistono albi o graduatorie, a parte quelle di Forbes o Kunstcompass che però lasciano il tempo che trovano. Il principio democratico, inclusivo e non elitario, darebbe a tutti la loro opportunità.

Esiste d’altro canto il professionismo artistico che nega la certezza democratica, e che nel mondo dell’arte permette di dare punteggi (quelli appunto di Kunstcompass) in base a quale galleria ti rappresenta, in quale museo esponi, su quale rivista pubblichi, in quale fiera sei ammesso, e via dicendo.

Paolo Canevari Three Hearts, 2009 video still. 5′ 45

Oggi però i termini del ragionamento di Hofmann non possono più basarsi soltanto su quelle due polarità: dovremmo applicarvi una miglioria, fare una piccola revisione, aggiungere un terzo incomodo. Il professionismo artistico non è necessariamente un baluardo alla democratica perdita di senso dell’arte per eccessivo allargamento del suo dominio. Il professionismo artistico è solo l’altra faccia di questo stesso meccanismo di “mediocrità” e, non a caso, è proprio quello che più viene messo in discussione e soffre in momenti di crisi come l’attuale.

Se l’arte e il suo sistema fossero un complesso formato da valori culturali e non da consumi culturali, da visioni filosofiche e non imprenditoriali, crisi o non crisi saprebbero come sopravvivere, anzi è proprio nei momenti di crisi che riuscirebbero a immagazzinare nuova linfa e nuovi stimoli, ad accrescersi, a guadagnare. Proprio quei momenti però, al contrario, provocano perdite economiche dal punto di vista di scambi commerciali, diminuzioni degli ingressi nei musei, delle attività espositive, di inaugurazioni, aste e via dicendo. Da ciò capiamo, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’arte e il suo sistema sono una cosa diversa l’uno dall’altra: quel che si perde nei periodi di recessione economica, pandemie o scoppio di bolle speculative non appartiene all’arte né alle opere, ma alle sue superfetazioni accessorie e spesso parassitiche.

Il professionismo artistico, dunque, è molto più vicino al sistema di scambi di quanto non lo sia pensare, realizzare o scrivere su un’opera d’arte, attività che dovrebbero bastare a se stesse e non dipendere da commissioni e esposizioni, proprio come il concetto di morale, dovere e libertà nella Ragion pratica di Kant: è la sua possibilità e pensabilità che conta, non l’attuazione che può essere “inquinata” da inclinazioni personali e utilitarismo.

E, d’altra parte, la certezza democratica che tutti possano fare arte, proprio a causa dei tanti improvvisati che vi si dedicherebbero, darebbe ancora meno garanzie che questi sappiano offrire risposte in momenti di crisi, risposte che non riescono a garantire neanche in periodi di salute pubblica. Dico ciò pensando a tutta l’arte impegnata, partecipativa, ecologica, relazionale, che si basa esclusivamente su contenuti reali che devono essere affrontati e risolti nei loro rispettivi ambiti, non di certo in quello estetico o artistico che dir si voglia, dove sì il rischio sarebbe seguire opportunismi e inclinazioni personali contrarie al messaggio espresso.

Paolo Canevari, Burning Skull 2006, video still 4′

Dunque a quale conclusione arrivare?

Comprendere che l’attuale profilo sobrio, rarefatto, meno affollato, meno salottiero e meno mondano rispetto ai tempi “normali”, che molti artisti e critici d’arte stanno elaborando e sfruttando, pur con tutte le difficoltà del caso, in una solitudine creativa e in un particolare stato di grazia e concentrazione, debba essere la normalità quando parliamo di arte, che tutto può essere, ma non materia professionale né utile alle pari opportunità. Il primo (“professionalismo”) potrà ben essere contemplato come funzionale al commercio dell’arte, il secondo (“pari opportunità”) ammesso come occasione da dare a dilettanti, appassionati e amatori: l’arte però di chi sa operare nell’ombra e nel silenzio e che non appartiene né agli uni né agli altri, è la sola possibilità che abbiamo per poter ancora parlare di arte come un “modo speciale di pensare”, per citare un libro riflessioni del celebre critico americano Harold Rosenberg.

Non c’è bisogno di una crisi o di una pandemia per dircelo, al di là dei nostri quotidiani commerci più o meno obbligati per sopravvivere. Se durante le crisi dunque vanno in crisi professionisti (come dimostra il sistema di scambio delle arti) e dilettanti (come credono commentatori televisivi), non andrà in crisi chi realizza arte come unica ragione della sua produzione: il che equivale a dire che l’arte per essere tale non deve entrare nei normali circuiti commerciali o di svago, ma essere un’alternativa reale a essi. Cioè: il suo senso è all’interno del proprio linguaggio e delle proprie invenzioni tecniche e formali al di fuori delle quali non si dà arte, ma solo attività e operazioni intorno a essa.

Il che non vuol dire un ritorno al concetto di capolavoro, di arte come forma di sapere superiore e di critica come studio, ricerca e conoscenza (auspicabile, ma difficile da attuarlo in tempi stretti), bensì di umanizzazione dell’arte come ricerca e fatto storico non necessariamente legato a implicazioni espositive, di speculazione finanziaria e fenomeni mediatici o di intrattenimento. In futuro, allora, niente più discussioni su questioni come bucce di banane attaccate col nastro adesivo alle pareti, dipinti che si tagliano a striscioline durante un’asta, video inchieste e documentari su emarginazione e discriminazioni, performance per distendere i nervi e invitare al dialogo, visite adamitiche dentro i musei, chi s’è visto o non visto a un vernissage, d’accordo? Ridiamo all’arte un suo specifico esistenziale, morale e linguistico e, per ora, concentriamoci piuttosto su opere che non nascondono la violenza e l’ansia del nostro tempo, ma l’affrontano a partire dalle sue immagini più scabrose e allucinatorie. Uno stimolo dunque a rivedere una serie perturbante di video di Paolo Canevari realizzati negli anni Duemila (US, The Three Hearts, Burning Skull, Burning Mein Kampf). Un modo per vivere il nostro presente dentro le sue inquietudini e attraverso le nostre paure (sia pure di distruzione, sangue, morte, olocausto). Un salutare shock per riprenderci dal male…

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