Il cortile d'onore, UniversitĂ degli Studi di Milano, ph. Angelo Negri. Copyright: UniversitĂ degli Studi di Milano
Marco Eugenio Di Giandomenico è una figura poliedrica: scrittore, critico e curatore artistico, economista della cultura e dell’arte, nonché esperto del terzo settore. Ricopre rilevanti incarichi accademici presso università e accademie di belle arti italiane ed estere (tra cui l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, l’Università degli Studi LA STATALE di Milano, l’Università Pontificia COMILLAS di Madrid). Presso l’Università degli Studi di Milano svolge il ruolo di responsabile scientifico del settore Arte e Turismo del Master in Business Innovation. Lo abbiamo intervistato per conoscere i dettagli di questo nuovo progetto.
Il prossimo novembre inizia il Master Universitario in Business Innovation (MBI) dell’Università degli Studi di Milano, da dove nasce l’idea di organizzare questo master? A quale richiesta del mercato risponde?
«Il Master in Business Innovation, su impulso di Maria Letizia Giorgetti, nasce dalla volontà dell’Università degli Studi di Milano e, in particolare, del Dipartimento di Economia, Management e Metodi Quantitativi – DEMM, di formare operatori dell’arte e del management culturale con competenze legate al digitale e alle nuove tecnologie. Si tratta di un master di I livello a cui si accede dopo aver conseguito la laurea triennale; pur avendo un imprinting economico è caratterizzato da una grande multidisciplinarietà abbracciando il mondo finanziario, quello chimico, fino ad arrivare al mondo dei beni culturali.
Il beneficiario della formazione è chi ha a che fare con le nuove tecnologie: vogliamo implementare l’offerta attraverso professionisti che operano nei più diversi ambiti, ad esempio Domenico Piraina (direttore del Palazzo Reale di Milano) che è a capo dell’offerta culturale del comune di Milano, può certamente dare allo studente importanti svolti educativi, oppure ancora Cesare Biasini Selvaggi (direttore editoriale di exibart) dà valore aggiunto al settore dell’arte e della cultura».
Le figure che andrete a formare sono orientate verso il settore pubblico o privato?
«C’è senza dubbio una grande attenzione al settore privato, per quanto riguarda il pubblico è già in atto un processo “interno” di formazione delle competenze legate al digitale. Direi che gli studenti sono più orientati verso il privato, ma potrebbe essere un master utile anche per figure quali i direttori di musei, curatori, professionisti del settore che si occupano della promozione dei musei. Il master non è esclusivamente orientato verso l’uno o l’altro settore, tuttavia ha certamente una ricaduta maggiore nel privato».
Il master in Business Innovation apre nuove prospettive sull’arte digitale, qual è secondo lei il ruolo che quest’arte svolge nella società ?
«Innanzitutto occorre capire cosa si intende per arte digitale. Fino a pochi decenni fa la produzione artistica era legata a mezzi “meccanici” (il pennello, la tela, il marmo…), ora ci si avvale del digitale. L’output definitivo non è altro che un file che viene stampato in due o tre dimensioni, quella digitale rappresenta una creatività che si avvale di strumenti prettamente informatici. L’altro punto su cui riflettere è legato alla fruizione digitale dell’arte, che apre anche il tema della sostenibilità dell’arte digitale: il file informatico (l’opera d’arte digitale) ha bisogno di specifici programmi per essere “letto”, se improvvisamente questi non dovessero più funzionare sarebbe sempre fruibile l’opera d’arte?
Un altro argomento da considerare è legato alla definizione che diamo a quest’arte. Se l’artista usa il mouse per produrla si classifica sempre come “pittura”? Si può sempre parlare di arte, oppure è un’altra cosa? Alcuni colleghi rifiutano di definirla tale, va dunque pensata un’altra tassonomia dell’arte che soddisfi canoni ben precisi. Se leggiamo i testi di Argan, questi descrivono gli autori parlando principalmente delle tecniche, oggi di quale tecnica possiamo parlare se si adopera il mouse come strumento?
Viviamo in un momento di grande transizione, si sentono tante speculazioni su prodotti difficilmente definibili “bell’arte”. La società dà maggior peso all’apparenza, al consenso, non c’è più contenuto culturale. Quest’ultimo è del tutto evaporato, si può vendere il nulla a patto che abbia consenso. Tutto questo Sistema credo stia rovinando l’arte».
Può l’arte digitale farsi portavoce di promozione culturale e generare crescita sostenibile?
«Questo discorso nasce già nell’ambito dell’intelligenza artificiale. L’arte digitale (d’altronde come l’arte in generale) può diventare strumento di edificazione sociale. L’arte digitale può essere definita come una nuova presenza nel mondo: ha un indubbio valore come arte di per sé. L’arte, insieme alla cultura, non è annoverata nell’Agenda 2030 dell’ONU per lo Sviluppo Sostenibile, in quanto esse, e in questo caso l’arte in particolare, rappresentano un volano soggetto/oggetto della sostenibilità . L’arte digitale può essere questo volano, un mezzo che può portare a benefici evidenti e calcolabili attraverso gli specifici indicatori individuati dall’UNESCO».
Se non sbaglio, il modulo che andrà a sviluppare nell’ambito del master si chiama Arte e valorizzazione territoriale, in che termini si può parlare di convergenza tra queste due matrici/ fattori?
«L’arte e la cultura valorizzano il territorio in termini sostenibili, sono dei veri e propri “creatori di ricchezza”. Se, ad esempio, apro un nuovo museo a Milano porterò dei visitatori in città , questi turisti alloggeranno in alberghi, si ciberanno in ristoranti, l’intero territorio acquisirà valore aggiunto. Se l’arte è ben comunicata riesce a “bucare” il mercato.
Un altro punto da considerare è legato alla brand identity. Quanto conta il Colosseo per l’identità culturale di Roma? Oppure il Castello Sforzesco per Milano? Questo processo di identificazione del territorio incrementa anche la relativa economia e tutte le attività connesse. Nel corso del master mi focalizzo proprio su questi aspetti: i nuovi sistemi di produzione dell’arte, il modo in cui l’arte è promossa. “Fare comunicazione” significa rivolgersi a chiunque. Tutti infatti possono individuare un messaggio estetico più o meno profondo in una data opera».
Lei ha più volte riflettuto sul tema della sostenibilità , non ultimo nel libro L’esperienza artistica di Tiziano Calcari. Creatività e lutto nell’arte sostenibile, cosa la spinge a definire l’arte di Calcari “sostenibile”?
«Anche in questo caso forse è necessario partire dalla definizione di arte sostenibile. Si tratta di un’arte che edifica la società , che porta avanti tematiche sociali (presenta, possiamo dire, tre pilastri fondamentali: ambientale, economico e sociale).
Partendo da questa idea, Tiziano Calcari può, a mio avviso, essere definito “sostenibile” in quanto, partendo da un lutto trigenerazionale, ha saputo salvarsi attraverso l’arte. Il lutto non è soltanto la morte di una persona cara, ma rappresenta in senso lato un “distacco” affettivo (dalla famiglia, dalla città di origine…), un distacco traumatico. La creatività rappresenta un punto di partenza per elaborare il lutto. Le frustrazioni che si trasmettono di padre in figlio, danno la forza all’artista, in questo caso a Calcari, per “guarire” e superare il lutto. Calcari ritrae nelle sue opere immagini negategli dalla sua situazione familiare, rappresenta scene che avrebbe voluto, ma che non ha potuto vivere».
Lei in un intervento alla Camera dei Deputati ha affermato che il termine “sostenibilità ” è abusato. Qual è, dunque, secondo lei il modo giusto per approcciarsi a questo concetto?
«La parola “sostenibile” è sempre stata presente nel vocabolario, tattavia dalla metà del secolo scorso la si è associata alla questione ambientale. Fisher sosteneva che le risorse naturali non hanno prezzo perché sono infinite e inesauribili, sappiamo che ciò non è così. Si utilizza dalla metà del secolo scorso il concetto di sostenibilità con maggiore consapevolezza, si è capito che occorre stare attenti alle variabili ambientali.
Sostenibilità deriva dal latino sub-tenēre ovvero “tenere sotto/ sostenere/ mantenere”, concetto che nasce dal non rovinare, non distruggere. Con il passar degli anni, l’immagine si è arricchita con l’idea di “miglioramento”. Il concetto va interpretato in chiave ultragenerazionale, che pone un problema di responsabilità per chiunque. Si parla di insostenibilità quando un’azione di oggi va a creare danno, a diminuire la possibilità di scelta del futuro».
Parlando di arte sostenibile, mi viene in mente il testo Le tre ecologie di Felix Guattari (che fa riferimento all’ecologia ambientale, sociale e mentale che fronteggiano insieme la crisi globale). Può esserci una connessione tra “arte ecologica” e “arte sostenibile”? Quali sono le differenze tra le due?
«Nel ’900 l’istanza ambientalista diventa una produzione artistica come la Land art (correnti che pongono al centro la tematica ambientale), ovvero la Minimal art. Progressivamente l’arte ambientale acquisisce una sua consapevolezza divenendo arte sostenibile. L’arte ambientale è quella tipologia artistica che si è sviluppata nel secolo scorso, è il primo passo che prosegue nella produzione contemporanea; ad esempio la difesa della donna è un tema legato alla sostenibilità , nasce proprio dall’insostenibilità sociale e culturale, un mondo insostenibile rappresenta inevitabilmente un mondo che implode, occorre quindi nutrire gli animi di maggior consapevolezza per poter attuare un cambiamento».
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