Che Parma fosse una delle capitali del mangiar bene lo si sapeva. Adesso c’è di che riempirsi la testa, oltre che lo stomaco. Sempre di cibo, naturalmente. Il festival
Gnam si propone come un’indagine ad ampio raggio sul mangiare e su tutto ciò che vi ruota intorno, con mostre, performance e incontri dislocati in alcuni dei punti significativi della città. Dalla storia italiana degli ultimi cento anni vista attraverso i manifesti pubblicitari allo spettacolo di Eva Ensler sulle ossessioni del e nel corpo femminile. Dalle foto di
Celia A. Shapiro sull’ultimo pasto dei condannati a morte negli Stati Uniti a quelle di
Peter Menzel che percorrono il globo alla ricerca di differenti abitudini alimentari. Fino a
Foodscapes, in cui trentotto artisti internazionali, con opere dal 1963 al 2007, si confrontano con questo tema.
Incredibile quanti piatti vuoti ci siano in una mostra sull’atto del mangiare. I primi sono quelli delle tre
tavole di
Daniel Spoerri: pezzi appesi alla parete, in cui si affastellano piatti, bottiglie, zollette, mozziconi di sigarette. Più che del già consumato, dato che i piatti sono lindi, la mancanza di cibo sembra farsi segno della condizione raggelata, imbalsamata di una scena ormai vuota. Si passa poi a
Zerofood di
Erik Dietman, un tavolo con piatti fermati al tavolo da grossi chiodi. Piatti che non sono stati né potranno mai essere riempiti. A meno di non levare prima i chiodi, magari per mangiarseli.
Vanessa Beecroft mette in scena banchetti monocromatici e rarefatti in cui ragazze tendenti alla smaterializzazione siedono, guarda caso, davanti a piatti vuoti. Piatti vuoti su un tavolo anche nell’installazione di
Patrick Raynaud. A guardar bene, però, un suggerimento di cosa si potrebbe metterci dentro c’è: la tovaglia del tavolo rettangolare è percorsa dalla figura di un uomo nudo, disteso. E, a levare ogni dubbio, il titolo dell’opera è
Le festin cannibale.
Del cibo sembra non si possa parlare in termini neutri, oggettivi. Il cibo ci rimette in comunicazione, volenti o nolenti, col tratto oscuro e inquietante che l’atto del mangiare ricopre, con i suoi effetti devastanti e distruttivi.
Non ultimo, appunto, il cannibalismo. Il cibo è sempre il segno di una dismisura, di un’eccedenza: di segno negativo, come negli esempi appena citati, o positivo, come avviene nell’accumulazione ossessiva, nell’
horror vacui dei quadri (in mostra ci sono stampe autografe) di
Erro, che in una delle due opere presenti ammucchia alimenti di ogni tipo fino a coprire l’orizzonte. Alimenti che, come in una mutazione genetica, diventano nella parte alta dell’immagine scatole e scatolette, identificabili come cose commestibili solo per la presenza della marca. O come la frutta di
Barthélémi Toguo, immagine desiderabile di abbondanza fasulla, da cartolina, che nasconde lo sfruttamento delle risorse dell’Africa.
Il cibo è una presenza ossessiva, saturante, di cui non è possibile liberarsi non solo per ovvie ragioni biologiche ma, ormai, anche sociali e culturali. Non solo dappertutto c’è cibo, si può dire anche che tutto
è cibo. Tanto che diverse opere sono costruite sul suo carattere metamorfico: i pani di
Parmiggiani, buttati in un angolo come calcinacci; il pavimento di
Delvoye, i cui differenti materiali altro non sono che diverse varietà di insaccati; il matterello di
De Berardinis, che diventa uno strumento sado;
la cipolla del video di
Marina Abramovic, divorata come in un moderno rituale di automortificazione. Per finire con l’immagine dell’enorme feto nero di
David Reimond, ottenuta con le bruciature su fette di pancarrè disposte a formare un quadrato.
Opere che, nella loro diversità e apparente incomunicabilità, esprimono a diversi livelli quell’“
intricato groviglio socioculturale” di cui parla il curatore Lóránd Hegyi, per cui il mangiare si pone drammaticamente a metà. Tra l’essere un atto metaforico, e dunque strutturato in significati e regolato da norme, e l’essere invece qualcosa di selvaggio, tremendamente libero e vitale. Senza che queste due categorie riescano a distinguersi totalmente fra loro: seguendo ancora le parole di Hegyi, non ci sono nella mostra parti che siano a sé stanti, completamente indipendenti tra loro. Ognuna esplora un aspetto, senza sovrapporsi ma semmai completandosi con le altre. E ricostruendo un enorme e complesso mosaico.