Alla domanda: “È brutto?”, non è stato tanto facile rispondere, soprattutto se si intendono rispettare le regole del “filmbruttismo” incluse in modelli quali il Dracula 3D di Dario Argento (2012). Con queste premesse, in effetti, Dracula: a love tale di Luc Besson non è brutto. È solo mortalmente noioso: il che lo rende, però, anche inevitabilmente brutto.
La trama in breve: il voivoda di Valacchia Vlad (Caleb Landry Jones), rinnega la Chiesa ortodossa trasformandosi in un vampiro il cui unico desiderio è ritrovare l’amore della sua dama (Zoe Sidel) scomparsa, secondo lui, per l’indifferenza del dio cristiano. La ricerca durerà 400 anni e lo porterà fino alla Parigi di fine Ottocento, dove il Conte troverà nuovamente la sua bella reincarnata nella moglie di un procuratore immobiliare inglese.
Era la prima metà degli anni Novanta quando la Columbia sanciva un punto di non ritorno nel reboot dei classici dell’orrore gotico: Dracula di Bram stoker (Coppola, 1992, il più riuscito), Frankenstein di Mary Shelley (Branagh, 1994, il più bistrattato), Wolf (Nichols, 1994, il meno horror). A questa terna di classici si univa la controproposta Warner di Intervista col vampiro (Neil Jordan, 1994). Da quel momento storico l’iconografia non sarebbe stata più la stessa. La nuova tendenza, infatti, a partire dall’operazione di Francis Ford, consisteva nella fedeltà (più o meno) ai soggetti di partenza, restaurando così anche un’estetica che esaudisse altre pulsioni. Nel melodramma grandguignolesco di Coppola la vicenda storica veniva collocata in ouverture wagneriana con ritmi forti, ombre cinesi, lumi da film di Mario Bava e grande sintesi esotico-simbolista (Oscar a Eiko Ishioka, tanto per dire) ponendo una miliare interferenza nel frusto stile vittoriano e sancendo così un punto di non ritorno che potrebbe anche essere considerato “definitivo”. Posizione relativa, quest’ultima: nulla è mai definitivo, ma di certo a rivedere il modello coppoliano oggi riproposto posticciamente, l’idea si consolida.
Besson, infatti, opta per un remix sgangherato. Vlad III diventa II, offrendosi perciò a un corto circuito che rimodula il peso storico, epico, filologico e leggendario del voivoda/conte divenuto “mostro” a seguito delle sue vicende narrate di volta in volta dagli avversari polacchi, russi, turchi o ungheresi per un personaggio che, vissuto nella penombra della diceria, ha maturato un fascino ondivago tra crudeltà e nobiltà e da cui, per farla breve, sarebbe derivata tutta la mitologia sessuale di impalature turche e demonizzazioni veneree giunte fino a noi. Ma, in fin dei conti, quel numeretto romano non influisce sull’economia del racconto, anche perché le stesse ascendenze stokeriane sono di fatto sfocate.
La domanda che però ci si pone è: volendo rendere l’esergo storico del tutto libero, perché non affrancarsi veramente da tutti gli antecedenti? Ma probabilmente lo scopo di Besson non è questo e la proposta finale risulta perciò indecisa qui e prolissa lì, fragilmente basata sull’etere di snodi narrativi sospesi tra momenti di nulla parlato. Anche il costrutto fumettistico che in altri tempi avrebbe magnificato le posizioni pop del regista qui risulta poco brillante. Altrove, in passato, la stessa proposta si rivelò discussa – certo – ma anche coraggiosa (vedi Giovanna d’Arco, 1999), capace magari di far sbuffare un Roger Ebert, però anche di lasciar suppurare un’identità autoriale ben definita. Qui non succede: abbandonata la pellicola, avviene una resa al nuovo tecnologico, quella stessa incapacità di utilizzo del digitale che ha precedentemente colpito altri illustri boomers del grande cinema, da Spielberg ad Avati.
Così, se in effetti anche il precedente Dogman (2024) mostrava questo “difetto tecnologico”, ma funzionava in quanto opera di scrittura asservita all’interpretazione magistrale di Caleb Landry Jones, in Dracula: a love tale lo stesso interprete soccombe sotto gli strali di una Parigi senza senso, di gargoyles favolistici in CGI, di un ammicco risibile a Patrick Süskind, di un’indecisione di registro mascherata da pastiche, di una Matilde De Angelis che sembra uscita da una puntata de La Tata. E così via, giù, fino alla conclusione assurda ordita da un grande Christoph Waltz, che ci fa attizzare all’idea di ciò che avrebbe potuto essere: Van Helsing.
Ironico poi che lo stesso Waltz compaia anche nel Frankenstein di Del Toro, in un trait d’union che sembrerebbe ammiccare all’operazione Columbia vista all’inizio, senza però riuscire a essere altrettanto miliare. Ma pazienza: stasera ci rivedremo Frankenstein di Mary Shelley in VHS, con Branagh che sembra voler conquistare Azincourt mentre dà corrente alla testa di De Niro. Oppure, non volendo fare troppo i passatisti, potremmo accontentarci anche del tanto discusso Nosferatu di Eggers (2024). Il Dracula di Coppola per oggi possiamo anche tralasciarlo, tanto lo sappiamo a memoria. Per adesso è ancora quello “definitivo”.
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