Here, 2024
Hollywood Brucia. Non è il titolo di un fintomentario di Arthur Hiller super flop del 1997, ma la fotografia-metafora di quello che la narrazione del futuro rielaborerà come “Il Grande Incendio di L.A.”: l’immagine di un Oscar semi carbonizzato a iconica manifestazione della fine di un’era, quella dell’Impero Americano. Here di Bob Zemeckis esce nelle sale proprio in questi giorni e, a 39 anni da Marty e Doc e a 32 da Madeline e Helen, il regista torna a parlare dello scorrere del tempo. Con Tom Hanks e Robin Wright nel ruolo di protagonisti, come ai tempi di Forrest Gump.
La trama in breve: tra Boston e Philadelphia una macchina da presa saltella avanti e indietro, dal Cretaceo ai giorni nostri, in un’unità di luogo che si trasformerà nel soggiorno di una tipica casa borghese, teatro di amori, morti, nascite e fanfare alla maniera del più noto american way of life.
In linea con il sentimento escatologico della cronaca distopica, il film è di fattura postmoderna e sembra involontariamente rappresentare l’ultimo stadio di una grammatica hollywoodiana che, dopo aver rappresentato uno standard capace di unire grandeur narrativa a innovazione tecnica, sta giungendo al suo gerontologio. Per “grammatica hollywoodiana” intendiamo naturalmente quel verse-chorus-verse fatto di topoi ricorrenti (l’eroe, la conquista, la scena d’amore, il padre, l’affermazione, l’albero di Natale, la zucca, il latte a cena, il tacchino, la fanfara finale e via dicendo) condita da una sintassi collaudata e da score rigorosamente “emozionali”, un modello che ha trovato il suo apice tra i Cinquanta e i Novanta, e in questi ultimi, tra gli altri, c’è stato proprio Forrest Gump, capolavoro dello stesso regista con cui questo Here – dicevamo – condivide salientissima parte del cast.
Zemeckis però è stato anche capace di stabilire le giusti dosi di black quid in opere che altrimenti avrebbero perduto ogni piglio epico. Quest’alchimia agile e ultra mimetica gli ha permesso di sbagliare raramente e di fornirci alcune opere storiche: Back to the Future, Who Framed Roger Rabbit, Death Becomes Her, Contact – giusto per citare le più note – e in questo “schema canzone” basato sulla vulgata spealberghiana della grammatica neo-hollywoodiana, a lui dobbiamo parte fontamentale di quell’immaginario che ha rappresentato anche un agile strumento di formazione per le masse occidentali. Questo schema, tuttavia, oggi ondeggia tra il frusto e il “classico”, e tira la corda sulla credibilità del suo modo di raccontare. In altre parole lo schema si sta storicizzando. Le grandi fanfare musicali a corredo dei buoni sentimenti e del sogno fatto di case bianche con steccato, prati e tosaerba non arrivano più alla pancia dello spettatore medio senza prima passare dalla testa. E oggi anche il meno erudito tra i fruitori ha ampliato i propri orizzonti figurativi a seguito della diversificazione geografica di film da vedere con i popcorn in mano. Basta tenere a mente la scaletta degli Oscar 2020 per capire di cosa stiamo parlando.
A totale incuria di questa temperie Here tenta disperatamente l’uso del manierismo appena descritto (musica di Alan Silvestri compresa) e tenta di smarcarsi con un esperimento montaggistico che vorrebbe imitare la pagina del graphic novel da cui è tratto (l’omonimo Here ad opera di Richard McGuire), ma finisce con il somigliare più a un innesto zombi tra Peter Greenaway e Louisa May Alcott. “Madame Tecnologia”, che tante volte ha supplito nelle “zone meraviglia” di noi giovani spettatori, oggi ha giocato tutte le sue carte e quindi il claim del ringiovanimento dei protagonisti di Forrest Gump a mezzo di cosmesi digitale ci conquista poco e, anzi, ogni tanto sembra sul punto di richiamare quel meme che paragona il nano dell’attuale Biancaneve con il brontosauro di Jurassic Park a testimonianza dell’involuzione dello strumento CGI.
In poche parole il film si stazzona su modelli di carattere tipicamente statunitense, celebra il più ordinario dei miti della famiglia attraverso i più scontati dei retroscena, e giace nella speranza che un esperimento tecnico non poi così originale dia tono avanguardista a questo dramma da camera travestito da romanzo OuLiPo. La sceneggiatura di Eric Roth funziona in quanto snella, a servizio dell’impresa di trattenere senza noia il pubblico per 100 minuti davanti a luoghi comuni sull’immaginario americano. Mentre le interpretazioni, laddove non fiaccate da maquillage algoritmici, sono indefinibili perché troppo caratteristiche o grandangolari. Un album di figurine che si lascia sfogliare senza critiche feroci, anche per il solo fatto di essere opera di un nume tutelare di una tradizione che oggi è entrata con onore nei libri di storia. Un nume tutelare che in cinquanta anni di carriera non ha mai sbagliato un colpo. O quasi.
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