Brady Corbet, The Brutalist, 2024
Come ogni anno arriva il tempo dei bilanci e, forse, il calendario 2025 delle uscite italiane non è stato particolarmente carico di qualità. Anzi, spesso ci si è ritrovati di fronte a promesse poco mantenute. La sorpresa giunge invece, ancora una volta, dalla nicchia indipendente – il che la dice lunga sulle esigenze della contemporaneità. Epoca storica disperata? Non è questa la sede per stabilirlo, ma possiamo provare ad approntare qualche coordinata. Quindi, buone visioni e buone feste.
Il film di Brady Corbet rappresenta bene il senso di hype. L’epopea brutal-espressionista di Laszlo Toth è in bilico tra grandeur passatista hollywoodiana e metafora sociale contemporanea. I critici più strutturalisti ce l’hanno messa tutta per rendere digeribile questo “tetraorario” colossal, che racconta l’ascesa di un profugo ebreo dalla persecuzione nazista al successo come architetto funzionalista statunitense, e poi su, fino alla famosa Biennale d’Architettura del 1980. Purtroppo, gran parte di queste connessioni rimangono oscure in un film che rimane ancora un mistero, forse destinato a schiudersi sotto l’occhio degli spettatori di un tempo futuro, lontano dalle urgenti problematiche storiche e politiche. Però Heaven’s Gate insegna.
Non credete a chi vi dice che non è necessario scavare a fondo nel sottotesto per comprendere un film. Forse non è un precetto valido in termini assoluti, ma nel caso di Paul Thomas Anderson è quasi una chiamata alle armi. Il regista californiano è infatti un postmoderno consapevole, una specie di serial killer che vuol essere preso, e si cimenta determinatamente con la “sovrastruttura” passandola da un medium all’altro. Ora il “killer” torna sul luogo del crimine – in questo caso la letteratura di Thomas Pynchon. Se con Inherent Vice, la sfida era rendere in immagini il “sovraccumulo” del logorroico di Cabot Cove, qui sarà dimostrarne la verità cristallina celata dietro le parole, tanto da trarne un pezzo di cinema epico e fruibilissimo, così tanto fruibile da trasformarsi in un film d’azione. Il romanzo Vineland è qui solo un rarissimo aroma diffuso, ma è l’aroma giusto: quello che solo il più grande regista americano vivente poteva essere in grado di individuare.
Forse a causa del karma per i troppi premi assegnati a Parasite, ci siamo trovati traditi dalle promesse non mantenute del mediocrissimo Mickey 17 di Bong Joon-Hoo. Allora la fanta-quota di quest’anno la assegniamo a Lanthimos che, con Bugonia, tralascia la stesura del suo CV per tornare alla regia di un film. In questa distopia complottistica, Jessie Plemons, Emma Stone e i suoi piedini smaltati fungono da protagonisti di una lotta all’ultimo sangue che tenta il remake del coreano Save the Green Planet (stessi produttori) e ci consegna efficacemente un buon prodotto tra intrattenimento e spunti. La domanda di fondo – «E se i terrapiattisti avessero ragione?» – rappresenta la provocazione satirica del XXI secolo. Come direbbe Homer Simpson, fa ridere perché è vero. Qui la nostra recensione nel dettaglio, senza spoiler.
Con la serie di Knives Out, Rian Johnson crea una nuova mitologia su estetiche e generi vetusti. Nel caso specifico, quest’anno la serie trova il suo terzo capitolo e, come in ogni tradizione di saga (Scream lo insegna), passa attraverso il tradizionale picco basso del secondo capitolo per ritrovare, poi nel terzo, la sua vitalità. Se nel primo episodio eravamo dalle parti di un ipotetico “Agatha Christie feat. Neil Simon” (come rimarcato dal titolo italiano), qui siamo in una zona Chesterton condita da iperboli verbosissime che uniscono Lupin III all’eloquio shakespeariano. Di certo, l’operazione di engagement giallistico è perfettamente riuscita. Merito del décor, del super cast, della scrittura e dello spassosissimo sguardo perlinato di questo nuovo detective da brossura gialla ingiallita, nientemeno che Daniel Craig.
In un presente che somiglia sempre di più alle peggiori distopie phildickiane, l’orrore, con la sua carica allegorica, finisce per affrescare al meglio il nostro stato d’animo attuale. Qui Zach Cregger ci ribadisce – attraverso coloristica, ritmo e costrutti che rimandano a vari altrove cinematografici – quanto le fiabe siano horror. Immaginate un film della New Line Cinema che restauri la saturazione dei suoi migliori successi del terrore (da Nightmare 1 a Nightmare 7) e che li ribadisca ricordandoci che però ha anche prodotto Magnolia nel 1999. Immaginate che questo film sia una lezione di fotografia, regia e movimenti di macchina scorsesiani e che dal nume italo-americano prenda il black humour. Immaginate, poi, che questo film racconti una fiaba dei fratelli Grimm e che, in una cadenza tematica che sembra uscita da The Falls di Greenaway, ci conduca alla più banale delle scoperte, talmente banale da risultare originalissima. Otterrete uno dei più entusiasmanti horror dell’anno.
Mario Martone si riconferma uno dei grandi maturi del cinema italiano, con tutti i pro e i contro che questo comporta. In Fuori, attraverso Valeria Golino, dà corpo, volto e voce (rauca) a Goliarda Sapienza, l’autrice riscoperta de L’arte della gioia. Il film è diviso in due parti: una prima, minimale, fatta come si faceva una volta – alla Friedkin – con pochissimi fronzoli e una puntuale presa diretta; la seconda, invece, indulge all’elegia nostalgica, con qualche indebolimento ma con un punto sempre a fuoco: l’autentica fede di Goliarda nella propria arte. Con Elodie e Matilda De Angelis. Da vedere anche solo per avere il giusto innesco per una mappa letteraria nuova che parta da L’università di Rebibbia e giunga alle vette dell’Arte di cui sopra.
Ironico che il testo che causò tanti grattacapi all’autore sia stato trasposto in maniera ancora una volta problematica, tra traversie e blocchi (doveva uscire nel 2023). La trama è sempre quella: Satana arriva a Mosca perché teme che l’ateismo del regime sovietico sia così radicale da indurre gli uomini a non credere più in nulla, neanche in lui. Se altre volte la trasposizione non aveva sortito i risultati sperati, stavolta l’operazione riesce in buona misura, restituendoci il caos dell’opera di Bulgakov, anzi, aggiungendo un marcato ipertesto al già invasivo sandwich originale. Immaginate un cinecomic sul metaverso girato da Sokurov e otterrete un’idea approssimativa di questa nuova versione de Il Maestro e Margherita. Senza troppi giri di testa, lo spettatore potrà dirsi quantomeno non annoiato da quasi tre ore di arzigogoli in questo buono, onesto, divertente e rischiosissimo film.
Film necessario, è stato detto. Basterebbe solo questo per suggerirne la visione. L’opera di Kawthar Ibn Haniyya segue un input reale e tragico che innesca il pathos dove vorremmo non fosse mai trovato, ripercorre, con audio originali, l’uccisione a Gaza di Hind Rajab. E l’obbligo di comunicare è così urgente da richiamarci al presente. Artisticamente l’opera presenta delle pecche? Può darsi, ma l’operazione in questione è così importante che, per uno qualsiasi dei seguenti motivi – storico, umano, etico – il giudizio si sospende.
Stavolta il cineasta di Akron torna alle coralità di Night on Earth (1992) per un affresco a episodi “familiari” che ha vinto il Leone d’oro a Venezia – e si sono fatte ben sentire le polemiche di chi sperava nella vittoria de La voce di Hind Rajab, anticipate da un appello del cinema sul dramma di Gaza (ne parlavamo qui). Su Father Mother Sister Brother: il cinema di Jim Jarmush è un tale “sparire del regista” che quest’ultimo finisce con il comparire sempre di più, come un Di Caprio che se ne va in giro mascherato fuori dal carnevale sperando di passare inosservato (meme di questi giorni). Da vedere perché è un bel film. E poi perché è un bel film di Jim Jarmush. E poi perché è un bel film di Jim Jarmush che ce l’ha fatta a vincere il Leonissimo, ma proprio nel momento sbagliato. Come capiterebbe a uno dei suoi antieroi sgangherati. PS: e poi c’è la divina Charlotte.
Avete presente Bataille che parla dell’erotismo e riflette sul fatto di annullarsi a vicenda? Avete presente il numero 117 di Dylan Dog in cui in un pianeta deserto due amanti milanesi, ascoltando Memo Remigi, si fagocitano a vicenda sotto gli occhi di un astronauta? Se questa roba vi fa gola e se la filosofia vi stuzzica, non potete mancare a uno degli appuntamenti più weird dell’anno: Together, debutto di Michael Shanks. La nuova strada mainstream del body horror è tracciata ormai e, in pieno post-cronenberghianesimo, l’industria culturale d’occidente l’ha sancito quale allegoria perfetta di ogni nostro compromesso borghese. In questo caso abbiamo una coppia (anche fuori dalla finzione) che ci intrattiene con un ritiro passionale. Il risultato è questo delirio a tre che usa la strategia dell’horror per raccontare qualcos’altro. Ma non è sempre così dopotutto?
Gangster movie, action, musical, dramma sociale e assalto queer: pubblico e critica hanno gradito l’idea rischiosa di questo prodotto anomalo che si muove, nonostante tutto, con grande eleganza in territori ad altissimo rischio kitsch. Il genere dei generi, quello che più desidera avvicinarsi a un’idea vaga di cinema assoluto, stavolta parla spagnolo, è ambientato dall’altra parte delle barricate trumpiane e adopera i corpi sincopati o straordinari di Zoe Saldana e Carla Sofìa Gascòn, interpreti memorabili in un film unico. Da vedere perché è una finestra insolita sulla questione ricorsiva delle nostre identità e dei nostri corpi, e poi perché ci ricorda che il meccanismo del musical è potenzialmente ricaricabile all’infinito. Forse come la nostra anima.
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