Le città di pianura, 2025
Il secondo film del giovane Francesco Sossai finge di non parlare di niente, ma quelle che vediamo non sono solo le strade del Veneto, sono anche tutte la superstrade che collegano le mini galassie morte di cui il nostro Paese è principalmente composto, ovunque ci si trovi. Poco importa. Dal Nord al Sud, tutte somigliano alle lunghe marce di ritorno a casa fatte ai tempi dell’università, quando sperimentavamo quanto libera, bizzarra e depravata potesse essere una vita altrove, fuori dal paesino. Sì, l’Italia è fatta al 90% di provincia dai tratti sempre comuni: le leggende alcoliche, il desiderio sessuale, la giovinezza, il rimpianto. E poi, soprattutto, la nostalgia: quella degli Offlaga Disco Pax, per esempio, o degli Zen Circus; quella nostalgia che ci siamo portati dietro per postdatarla agli anni Novanta (prima erano i Settanta, prima ancora i Cinquanta), e ora sa di centri sociali e scorrazzate notturne fino al concerto degli Afterhours o dei Verdena anche se “ho l’esame, ma fa niente: ci penso domani”. Ed adesso ecco Le città di pianura, nelle sale d’Italia nell’autunno 2025, a fare da chiosa a tutta questa ostentata nostalgia.
La trama in breve: i due vagabondi alcolici Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla) stanno tentando di recuperare il loro vecchio amico Genio (Andrea Pennacchi) di ritorno dall’Argentina, ma sbagliano aeroporto e si vedono costretti a ripiegare su Venezia alla ricerca di un bar aperto. Lo troveranno grazie all’aiuto di un gruppo di studenti di architettura, uno dei quali – il diligente e timido Giulio (Filippo Scotti) – li seguirà suo malgrado in un viaggio destinato a concludersi presso il Memoriale Brion, meta che offrirà a tutti e tre un diverso punto di vista sulle cose della vita (e della provincia).
Fingere di non parlare di nulla per quasi due ore senza annoiare è cosa difficile. Qui invece l’adagiato incedere etilico sembra improvvisato e, a un certo punto, ci sentiamo come dopo una notte di bagordi a parlare con l’amico ubriacone ex punk del ’77. Il regista Sossai, invece, è l’altro amico, quello che sognava di girare da sempre un film sulla “sua” provincia. E così lo fa: mettendoci dentro pezzi di territorio estesi in una mappa stradale sincretica ma del tutto credibile. Parla della crisi del 2008, parla della Luxottica, parla dei vecchi bar, parla delle vecchie trattorie, parla anche dell’edilizia funzionalista che cambia le fisionomie del territorio e che, nel disperato tentativo di Pennacchi, si fa metafora perfetta dell’andamento della nostra vicenda storica nazionale. Perché lo ribadiamo, sì: l’Italia è principalmente fatta di provincia. E raccontare un’epica della provincia vuol dire raccontare un’epica dell’Italia intera.
In quest’ansa di eventi s’incunea il volto tazzato di Pierpaolo Capovilla, frontman del Teatro degli Orrori, storica rock band veneziana portavoce di una scena rock indipendente tipicamente anni Novanta/Duemila. Nel film è l’amico ubriacone, il pagliaccio-sacerdote, reduce di una stagione in cui “si stava tutti alla grande”. Dall’altra parte del tavolo invece, oltre la schiera di bottiglie vuote, c’è Sergio Romano; la faccia del sindacalista approfittatore, dell’anarchico disegnato da Pazienza, dell’indiano metropolitano ripescato da Stracult, il Carlobianchi, quello che della provincia “non sa niente, ma sa tutto” (parole sue). Il film procede sulle ali dell’assurdo beckettiano e dell’irriverenza punk, fino a diventare una fiaba ubriaca che evita derive enfatiche. Unica possibile commozione è forse consentita in un momento in cui in cui un autore meno avveduto avrebbe collocato sguardi e fanfare. E invece no: qui il climax mostra un personaggio distratto mentre i fazzoletti bianchi sventolano oltre il suo orizzonte visivo. E noi siamo felici e tristi perché sentiamo che il film sta per finire e potremmo anche piangere, tanto emozionati da poter rinunciare alla sequenza successiva.
Insomma, un piccolissimo film di grande valore, infarcito di omaggi alle indipendenze territoriali, controculturali, musicali (la colonna sonora di Krano e compagnia) che fanno pensare a tutti i road movie italiani che del bighellonaggio hanno fatto strumento taratissimo, dal primo Salvatores all’ultimo Caligari, in un’unica escalation mai dimenticata di piacere alternativo che ha ancora il sapore delle notti passate ad ascoltare le cassette dei CCCP/CSI su una superstrada dell’Emilia Romagna o del Veneto o del Piemonte o della Sicilia. Tanto è uguale. Le Città di Pianura è una sorpresa perché non ha niente e ha tutto. Ed è una sorpresa perché era da un pezzo che un film indipendente di tal fatta non faceva questi numeri. Cosa buona e giusta.
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