The Substance, 2024
È segno dei tempi: il body horror filosofico di matrice cronenberghiana è ormai dominio del cinefilo paludato che (buona pace di Nanni Moretti), celebra a Cannes pellicole come Titane o il qui presente The Substance. Sono esempi di un nuovo gusto citazionista, in questo caso di quell’ottica tutta francese che nel decennio Duemila ci ha regalato la fetta sofisticata del torture porn (vedi Martyrs, A l’interieur) e che qui si manifesta con dettagliatissimi macro su prostetiche che fanno da compendio tanto ai Rick Baker che ai titoli di testa di Saw IV. Però stavolta c’è in aggiunta un messaggio, una morale a cui neppure la regista Coraline Fargeat si sottrae, riproponendo un plot che somiglia a quello de La morte ti fa bella, ma epurato da ogni guizzo comico, anzi calato in una fodera antisettica di frame perfetti che somigliano più a delle thumbnail da catalogo Mubi (o Fondazione Prada) che a delle inquadrature vere e proprie. Segno dei tempi, dicevamo.
La trama in breve: Elisabeth Sparkle (Demi Moore) è una conduttrice sul viale del tramonto. La sua crisi la conduce a una profonda depressione da cui spera di riprendersi assumendo un misterioso farmaco in grado di innescare una miracolosa palingenesi cellulare. Gli effetti collaterali saranno però impegnativi.
La prassi pseudoscientifica è solo accennata nel design dei dispositivi di assunzione del farmaco. La fantascienza lascia dunque il posto alla magia, quindi Cronenberg se ne sta di fatto a casa, viene solo citato a beneficio degli stili grafici, delle orecchie e delle unghie staccate e di uno SparkleMonster che richiama il BrundleFly de La Mosca (1986). The Substance, infatti, è un prodotto eminentemente grafico, quasi privo di trama, che ci ricorda in ogni istante che lui è un film ed è lì in quanto film, con le sue inquadrature “fatte bene”, con la sua fotografia perfetta, con la sua irrealtà citazionistica assoluta, con le sue simmetrie studiatissime a testimonianza continua ed estenuante che qualcuno – sì proprio così – lo sta realizzando e che quel qualcuno è donna, è brava, conosce il mestiere, è francese, ha visto degli horror, è sofisticata, ha scoperto che il genere si può ormai definitivamente proporre a gente diversa dal solito nerd con il pile, che la provocazione da deiezioni, sangue, budella e umori va benissimo anche per il pubblico impellicciato (dunque è disinnescata), eccetera eccetera eccetera. E si potrebbe continuare così per delle ore: due e venti per la precisione, cioè la durata del film stesso, un film che – ribadiamo – si guarda continuamente allo specchio, proprio come la Moore/Sparkle, ma alla fine si dimentica di fare quello per cui lo siamo andati a vedere e, proprio come la Moore/Sparkle, si deforma in inenarrabili spot del proprio virtuosismo tecnico, annoiandoci a morte.
Alla fine l’idea (quasi epocale) della dismorfofobia rimane orfana e per nulla sviluppata. Il tema scivola verso una soluzione shock divertente ma sconclusionata che va da La Famiglia Addams a Splatters, indulgendo però nella pratica dell’allegoria di denuncia, costrutto retorico oggi di gran moda e che, secondo la Fargeat, potrebbe esaurirsi nell’uso di ottiche grandangolari sui pori varicosi di un Dennis Quaid che si sta trasformando nel fratello Randy, ma che finisce solo per ricordarci l’analoga e fallimentare operazione di quel Men di Alex Garland che andrebbe ricordato come il Batman e Robin della causa femminista (“tutto quello che non dovrebbe essere fatto in…”).
Capita tutto questo mentre l’enorme potenziale di Margaret Qualley finisce, insieme alla sceneggiatura, nel recycle bin del “non-lavorato” e, se si eccettua il comparto tecnico, l’unico vero plauso va a Demi Moore che sceglie la strada meta-cinematografica del sé, quella che senza bisogno di essere originale, da Gloria Swanson a Mickey Rourke, è sempre connaturata al coraggio del mostrarsi in scena nudi, ricuciti, dismorfici, dismorfofobici, plastici, vecchi, rugosi, morti, moribondi, sofferenti, piegati, veri e, perciò, memorabili. Insomma, se The Substance fosse durato la metà (come i film di genere veri a cui vorrebbe attingere), esso si sostenterebbe della sola presenza della Moore, ma visti i 140 strabordanti e autoindulgenti minuti scelti dalla giovane regista francese, il film rimarrà lì, a solo beneficio di chi – con la pelliccia e non più con il pile – vedrà per la prima volta La morte ti fa bella, La Mosca e Splatters, ma in versione taroccata.
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